Guerra all’ isis- Aldo Giannuli

SINTESI DEL LIBRO:

 Perché stiamo perdendo la guerra con l’ISIS
Dobbiamo chiarire quattro parole: «stiamo», «guerra», «perdere» e «ISIS».
«Stiamo»: prima persona plurale; ma qual è il soggetto reggente la frase?
Include chiaramente l’Occidente. Certo, gli occidentali, a causa delle
sciagurate decisioni dei propri governanti, questa situazione sono andati a
cercarsela: tre guerre, una più insensata dell’altra (prima e seconda guerra del
Golfo e Afghanistan), occupazioni inutilmente brutali, errori politici e
strategici ininterrotti, senza dire delle colpe storiche; europei e statunitensi
non avrebbero potuto far di meglio per ottenere il disastro presente. Certo,
larghe fette di opinione pubblica occidentale si sono schierate contro 1 e
dunque non portano la responsabilità del massacro reciproco; ciò non toglie
che, obiettori e bellicisti, siamo stati tutti sbattuti in prima linea in questo
conflitto selvaggio, come ben dimostrano le vittime delle stragi di Madrid,
Londra, Parigi, Copenaghen ecc.
Ma quel noi include anche i sostenitori della «Primavera araba» del 2011-
2012, che chiedevano libertà individuali e collettive, democrazia, stato di
diritto, liberazione della donna. Primavera che è stata soffocata proprio
dall’islamismo e dall’intervento armato dell’Arabia Saudita contro il Bahrein:
non a caso, perché il rinnovamento delle società arabe era ed è frontalmente
contrapposto al progetto islamista.
Include anche gli immigrati islamici in Europa, la cui condizione di vita
peggiorerebbe bruscamente se vincesse il Califfato. E include anche chi vuole
l’osservanza dei diritti dell’uomo, delle garanzie dello stato di diritto ecc.,
tutte cose che i governi occidentali hanno fortemente compromesso
invocando il pericolo terrorista (basti pensare al Patriot Act americano). E in
quel «noi» mi riconosco: come laico sono schierato contro ogni teocrazia e
intolleranza, come libertario sono ostile a ogni totalitarismo, come marxista
non posso che essere nemico di un regime che reintroduce la schiavitù, come
internazionalista sono solidale con i popoli arabi oppressi dal regime
sanguinario del Califfato, come europeo mi sento uno dei possibili obiettivi
degli attentati, come uomo civile sono indignato per le barbare sofferenze
imposte ai prigionieri di Daesh. 2 E infine ho anche un motivo più personale:
ho dedicato trent’anni del mio lavoro a combattere il metodo delle stragi
indiscriminate di civili, ora non posso che continuare questo impegno contro
gli assassini dell’ISIS.
La seconda parola da spiegare è «guerra»: già, ma che guerra è questa che
nessuno ha dichiarato e che non ha linee di fuoco, regole e confini? Se per
«guerra» si intende uno scontro fra eserciti regolari, con truppe schierate,
carri armati, aerei ecc., ciò che sta accadendo è solo in piccolissima parte
corrispondente a un simile scenario. Quel che prevale ha piuttosto l’aspetto di
una guerriglia, con attentati, forme di guerra irregolare, manovre di
destabilizzazione. Soprattutto, è un ginepraio di crisi locali (Siria, Iraq,
Afghanistan, Libia, Mali, Nigeria ecc.) che però si connettono fra loro in un
insieme spesso indecifrabile. Si tratta della prima guerra globale della storia,
anche se lo scenario riguarda un numero pur sempre ristretto di Paesi, ma la
posta in gioco, comunque vada, cambierà gli equilibri planetari e immetterà
in un panorama decisamente mutato rispetto al presente. Dunque, gli effetti
saranno quelli di una vera e propria guerra, combattuta, però, con criteri,
metodi, strategie e tattiche molto diverse dalle consuete.
Quella che abbiamo in testa è la Seconda guerra mondiale, ma già per
descrivere il cinquantennio di «pace» che è succeduto ad essa si è spesso
usato l’espressione Terza guerra mondiale, a metà fra la metafora e il
riconoscimento di un nuovo tipo di belligeranza. Alla rivoluzione marziale
che si è prodotta, abbiamo dedicato un paragrafo del sesto capitolo.
La terza parola è «perdere»: vuol dire che stiamo per essere invasi da orde
di saraceni con le scimitarre sguainate? A questo sono dedicate alcune sezioni
del primo e del sesto capitolo. La partita in gioco è un’altra: la nascita di un
superstato islamico a carattere teocratico e jihadista in grado di mutare
radicalmente l’ordine internazionale, con conseguenze catastrofiche per la
democrazia, per la pace, per l’eguaglianza.
E veniamo al termine «ISIS»: in realtà sarebbe stato più corretto scrivere
«jihad», di cui l’ISIS è solo una delle espressioni, quella attualmente più
conosciuta. In effetti, il Califfato potrebbe essere invaso e distrutto, e non per
questo lo scontro finirebbe. Rischieremmo lo stesso di perdere dopo. Quando
Osama Bin Laden cadde sotto i colpi dei Navy Seals, si pensò che la guerra
contro l’islamismo fosse definitivamente vinta; poi è saltato fuori l’ISIS,
mentre Al Qaeda, per quanto ridimensionata, non è scomparsa e colpisce
ancora. E qui si pone il problema dell’identificazione del nemico.
Uno degli errori che ci stanno portando alla sconfitta è l’idea che la guerra
sia soltanto un affare di alcune organizzazioni terroriste composte da qualche
migliaia di uomini, debellate le quali tutto si risolverebbe. Si tratta di una
minimizzazione irresponsabile, che impedisce di capire che dietro le
espressioni politiche e militari di questa guerra c’è una base sociale che
produce i soggetti combattenti. Se uno cade, dopo qualche tempo ne viene
fuori un altro. L’errore opposto (ne parliamo nel primo capitolo) è quello di
pensare che tutto l’Islam stia muovendo guerra all’Occidente. Al riguardo è
utile qualche puntualizzazione: il «continente islamico» (nel primo capitolo,
spieghiamo il significato di questo termine) va dal Marocco all’Indonesia, ma
una sua espressione più ridotta, quella di Medio Oriente - Nord Africa (in
sigla, ME-NA), include tutto il Nord Africa e, a est di Suez, il territorio che
va sino al Pakistan verso est e all’Afghanistan, Cecenia, Tagikistan,
Uzbekistan verso nord. Poi c’è un’area più ristretta, che va dal canale di Suez
verso est, sino all’Iran escluso, ma della quale occorre considerare solo le
zone sunnite (parti di Libano, Siria, Iraq, poi Giordania, Sinai), che inizia a
essere indicata con l’espressione «Sunnistan». Dunque, quando si parla di
jihad, occorre tenere ben presente la sua diffusione (o, simmetricamente, la
sua concentrazione) territoriale. Si tratta di un fenomeno con un seguito
minoritario ma di massa nella zona del Sunnistan, con una serie di enclaves
in Africa e Asia. Nel ben più vasto mondo islamico, la jihad ha un seguito
molto più ridotto, anche se da non sottovalutare. Insomma, il primo problema
che abbiamo è prendere le misure esatte del nostro avversario, senza
esagerare né per difetto né per eccesso.

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