Disuguaglianza – Che cosa si può fare – Anthony. B. Atkinson

SINTESI DEL LIBRO:
Questo libro riguarda i modi per ridurre la dimensione della
disuguaglianza; dobbiamo perciò chiarire subito che cosa si intende, e che
cosa non si intende, con tale obiettivo. Vorrei iniziare sgombrando il
campo da un possibile fraintendimento. Non sto cercando di eliminare
tutte le differenze negli esiti economici. Non miro all’uguaglianza totale.
Certe differenze nelle grati cazioni economiche possono essere del tutto
giusti cabili. L’obiettivo, invece, è ridurre la disuguaglianza al di sotto del
suo livello attuale, nella convinzione che un simile livello sia eccessivo. Ho
formulato deliberatamente questa affermazione nei termini della direzione
in cui ci si deve muovere e non della destinazione ultima. I lettori possono
non essere d’accordo su quanta disuguaglianza sia accettabile, pur
ammettendo che il livello attuale è intollerabile o insostenibile.
In questo capitolo, esploro le ragioni per cui dobbiamo essere
preoccupati della disuguaglianza e della sua relazione con i sottostanti
valori sociali. Do quindi un primo sguardo all’evidenza empirica. Quanto
sono disuguali le nostre società? In che misura è aumentata la
disuguaglianza? Una volta visti gli schemi generali, però, è necessario
andare più in profondità. Che cosa si trova nelle statistiche e che cosa
invece ne viene escluso? Chi si trova nelle diverse posizioni della
distribuzione?
Disuguaglianza di opportunità
e disuguaglianza di risultati
Sentendo la parola “disuguaglianza” molti pensano subito alla possibilità
di avere una “uguaglianza di opportunità”. Questa espressione si trova
spesso nei discorsi politici, nei programmi dei partiti e nella retorica delle
campagne elettorali. È un potente invito all’azione, le cui radici affondano
nella storia lontana. Nel suo classico saggio Eguaglianza, Richard Tawney
sostiene che tutti devono essere “egualmente in condizione di fare l’uso
migliore di quei poteri di cui dispongono”. Nella letteratura economica
recente, dopo il lavoro di John Roemer, fra i determinanti degli esiti
economici si distinguono quelli che sono dovuti a “circostanze” al di fuori
del controllo personale, quali le origini familiari, e quelli dovuti
all’“impegno”, di cui invece si può ritenere responsabile l’individuo.
L’uguaglianza di opportunità si ottiene quando le prime variabili (le
circostanze) non hanno alcun ruolo nell’esito risultante. Se qualcuno si
impegna maggiormente a scuola, supera bene gli esami e si iscrive alla
facoltà di Medicina, almeno una parte dei suoi guadagni elevati di medico
(ma non necessariamente tutti) può essere attribuita al suo impegno. Se
invece il suo accesso alla facoltà di Medicina è reso possibile dall’inuenza
familiare (per esempio, laddove viene data la preferenza ai gli di laureati
della stessa università), allora si dà disuguaglianza di opportunità.
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Il concetto di uguaglianza di opportunità è attraente, ma basta questo
per dire che la disuguaglianza di esiti è irrilevante? Secondo me, la
risposta a tale domanda è “no”. La disuguaglianza di esiti è ancora
importante, anche per quanti prendono le mosse dalla preoccupazione
per un “campo di gioco livellato” (level playing eld). Per comprenderne
la ragione, dobbiamo cominciare con il notare la differenza fra i due
concetti. La disuguaglianza di opportunità è essenzialmente un concetto
ex ante (tutti devono avere un punto di partenza uguale), mentre molta
dell’attività ridistributiva ha a che fare con gli esiti ex post. Quanti
pensano che la disuguaglianza di esiti sia irrilevante considerano non
legittima la preoccupazione per gli esiti ex post e sono convinti che, una
volta preparato un campo di gioco livellato per la gara, non si deve stare a
guardare quali siano gli esiti. Per me ciò è sbagliato, per tre motivi.
In primo luogo, la maggior parte delle persone troverebbe inaccettabile
ignorare completamente quello che succede dopo il segnale di partenza. I
singoli possono impegnarsi a fondo ma avere sfortuna. Supponiamo che
qualcuno inciampi e nisca in povertà. In qualsiasi società umana gli si
fornirebbe un aiuto. Inoltre, molti sono convinti che tale aiuto debba
essere offerto senza stare a indagare perché quella persona si è ritrovata in
dif coltà. Come notano gli economisti Ravi Kanbur e Adam Wagstaff,
sarebbe moralmente ripugnante “far dipendere la distribuzione di una
scodella di minestra da una valutazione, se siano state le circostanze o il
suo impegno che hanno portato all’esito per cui quell’individuo […] è in
coda per avere un po’ di minestra”.
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Il primo motivo, quindi, per cui gli
esiti sono importanti è che non possiamo ignorare quelli per i quali l’esito
consiste in una situazione dif cile, anche nel caso in cui esistesse
uguaglianza di opportunità ex ante.
L’importanza degli esiti però arriva molto più in profondità e porta al
secondo motivo per cui non possiamo disinteressarci dell’uguaglianza di
esiti. Dobbiamo distinguere fra uguaglianza di opportunità competitiva e
non competitiva. Quest’ultima garantisce che tutti abbiano le stesse
possibilità di realizzare i loro progetti di vita indipendente. Per continuare
con le analogie sportive, tutti possono avere l’opportunità di seguire un
corso di nuoto; l’uguaglianza di opportunità competitiva signi ca solo che
abbiamo tutti le stesse possibilità di partecipare a una gara di nuoto in cui
sono in palio premi disuguali. In questo caso, che è il più comune, vi sono
ricompense ex post disuguali: qui entra in gioco la disuguaglianza di esiti.
È l’esistenza di una distribuzione di premi fortemente disomogenea che ci
porta ad attribuire così tanto peso all’equità della gara. La struttura dei
premi, poi, è in gran parte costruita socialmente. Le nostre convenzioni
economiche e sociali determinano se il vincitore otterrà una corona
d’alloro o tre milioni di dollari (il primo premio allo US Open di tennis
nel 2014). Il modo in cui si determina la struttura dei premi è la principale
preoccupazione di questo libro.
Inne, il terzo motivo per non trascurare la disuguaglianza di esiti è che
essa inuenza direttamente l’uguaglianza di opportunità – per la prossima
generazione. Gli esiti ex post di oggi danno forma al campo di gioco ex
ante di domani: chi bene cia della disuguaglianza di esiti oggi può
trasmettere un vantaggio iniquo ai propri gli domani. La preoccupazione
per la disuguaglianza di opportunità e per i limiti della mobilità sociale è
cresciuta man mano che la distribuzione dei redditi e della ricchezza è
diventata sempre più disuguale. Questo perché l’inusso della famiglia
sugli esiti dipende sia dalla forza della relazione fra condizioni familiari ed
esito, sia dal grado di disuguaglianza fra le condizioni familiari. La
disuguaglianza di esiti nella generazione odierna è l’origine del vantaggio
iniquo ricevuto dalla generazione successiva. Se ci sta a cuore
l’uguaglianza di opportunità di domani, dobbiamo essere preoccupati per
la disuguaglianza di esiti di oggi.
Preoccupazioni strumentali e intrinseche per la disuguaglianza
Ridurre la disuguaglianza di esiti, quindi, è importante anche per quanti
hanno come obiettivo ultimo l’uguaglianza di opportunità. È un mezzo
per un ne. Analogamente, libri inuenti come Il prezzo della
disuguaglianza di Joseph Stiglitz e La misura dell’anima di Kate Pickett e
Richard Wilkinson hanno identi cato altre ragioni strumentali per cui
dobbiamo preoccuparci della disuguaglianza degli esiti.
3Sostengono che
dobbiamo ridurre quella disuguaglianza perché ha conseguenze negative
per la società di oggi; attribuiscono all’aumento di disuguaglianza
l’assenza di coesione sociale, l’aumento della criminalità, la cattiva salute,
le gravidanze delle adolescenti, l’obesità e tutta una serie di altri problemi
sociali. Gli scienziati della politica hanno identi cato una relazione a
doppio senso fra disuguaglianza di reddito e ruolo del denaro nel
determinare l’esito delle elezioni democratiche, caratterizzate dalla “danza
dell’ideologia e delle ricchezze disuguali”.
4 Gli economisti hanno
imputato il peggioramento delle prestazioni economiche all’aumento della
disuguaglianza. Nel suo intervento al convegno annuale del Fondo
monetario internazionale e della Banca mondiale nel 2012, Christine
Lagarde ha parlato della sua “terza pietra miliare: la disuguaglianza e la
qualità della crescita nel futuro del nostro mondo”. Ha poi continuato
dicendo che “ricerche recenti del FMI ci dicono che una minore
disuguaglianza è associata a una maggiore stabilità macroeconomica e a
una crescita più sostenibile”. Si può discutere molto di quanto estesi
possano essere i bene ci derivanti da una riduzione della disuguaglianza, e
tornerò sulla relazione fra disuguaglianza e performance economica nel
Nono capitolo.
La necessità di ridurre la disuguaglianza non dipende, però, solamente
dalle sue conseguenze negative, del tipo descritto sopra. Esistono ragioni
intrinseche per credere che il livello attuale di disuguaglianza sia eccessivo.
Tali ragioni possono essere inquadrate in una più generale teoria della
giustizia. Per gli economisti che scrivevano di questi temi un centinaio di
anni fa era naturale pensare in termini utilitaristici. Riassumendo il
benessere individuale nei termini del livello di utilità attribuito a ciascuna
persona, sostenevano che una disuguaglianza eccessiva riduceva l’utilità
totale, poiché il valore di un’unità aggiuntiva di reddito (o più in generale
di risorse economiche) era minore per chi stava meglio. Come diceva
Hugh Dalton, economista inglese e cancelliere dello Scacchiere laburista,
il trasferimento di una sterlina da una persona ricca a una meno
benestante, a parità di ogni altra cosa, riduce la disuguaglianza e aumenta
l’utilità totale della società nel suo complesso.
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L’utilitarismo è stato molto criticato, non ultimo perché è interessato
esclusivamente alla somma delle utilità individuali e perché, per citare
Amartya Sen, “non si preoccupa affatto della distribuzione interpersonale
di quella somma. Questo lo deve rendere un approccio particolarmente
poco adatto all’uso per misurare o valutare la disuguaglianza”.
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quando si misura la disuguaglianza, si applicano pesi distributivi,
attribuendo un peso maggiore a quanti stanno peggio. Questi pesi
distributivi incorporano i nostri valori sociali in merito alla ridistribuzione
e costituiscono una base intrinseca per la preoccupazione della
disuguaglianza. Quali debbano essere questi pesi è questione su cui vi
sono idee diverse, come si può vedere dall’“esperimento del secchio
bucato” descritto dall’economista Arthur Okun, il quale si è chiesto che
cosa succederebbe se una parte della sterlina, nel trasferimento di Dalton,
andasse persa lungo la strada. Okun deduceva quanto maggiore peso
avrebbe dovuto essere attribuito al reddito del destinatario, rispetto a
quello del donatore, per giusti care il trasferimento. Se metà della somma
trasferita nisse fuori dal secchio, al reddito del destinatario dovremmo
attribuire un peso doppio rispetto a quello del donatore. Quanti
attribuiscono un peso maggiore ai destinatari più poveri preferirebbero
una maggiore ridistribuzione; andrebbero anche oltre, nella riduzione
della disuguaglianza. Al limite, tutto il peso sarebbe assegnato a chi sta
peggio, una posizione spesso associata a Una teoria della giustizia di John
Rawls, anche se nella sua concezione c’è molto più di quel che viene colto
da questo caso limite.
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La posizione “rawlsiana” che favorisce il meno avvantaggiato può
sembrare molto radicale, ma non è così lontana dalle dichiarazioni dei
politici che vogliono riduzioni delle imposte sul reddito perché
stimolerebbero l’attività economica e quindi incrementerebbero i ricavi
che potrebbero essere usati per aumentare i redditi dei più poveri fra noi.
Come illustra questa argomentazione, non c’è nulla di intrinsecamente
egualitario nell’obiettivo rawlsiano. Massimizzare il benessere del meno
avvantaggiato può portare a una distribuzione molto disuguale. Più
radicale di Rawls, in tal senso, era Platone, che esprimeva l’idea secondo
cui nessuno dovrebbe essere ricco più del quadruplo del membro più
povero della società.
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In questa concezione egualitaria, la disuguaglianza è
importante per la distanza che separa il ricco dal povero, e può giusti care
un’azione anche se non c’è guadagno per i più poveri.
Una teoria della giustizia di Rawls ha inaugurato un ampio dibattito, tra i
loso morali, sulla natura della giustizia sociale. Di particolare rilievo qui
è l’inquadramento rawlsiano dei principi della giustizia in termini di
accesso a “beni principali” (o primari): “quelle cose che si suppone un
individuo razionale voglia qualsiasi altra cosa egli voglia”, classi cati in
ampie categorie come “diritti e libertà, opportunità e poteri, reddito e
ricchezza”.
9 Come ha sostenuto Sen, questo ci porta molto oltre
l’utilitarismo, ma manca di tener conto delle “enormi differenze [fra le
persone] date dalla capacità di convertire i beni primari in una buona
qualità della vita”.
10 Sen ha proposto di passare dai beni primari alle
“capacità”, de nendo la giustizia sociale in termini di opportunità aperte
alle persone in base al loro funzionamento. L’approccio delle capacità si
distingue da quello di Rawls sotto due aspetti. Si concentra da una parte
su quello che i beni possono fare per le persone nelle loro particolari
circostanze, tenendo conto, per esempio, del fatto che persone con
disabilità possono dover sostenere costi di viaggio per andare al lavoro
superiori a quelli delle persone sicamente “abili”. Si preoccupa d’altra
parte non solo degli esiti ottenuti, ma anche della gamma di opportunità,
che Sen considera un elemento essenziale della libertà personale (da qui il
titolo del suo libro, Development as Freedom: in italiano, Lo sviluppo è
libertà).
11 In termini pratici, l’approccio delle capacità ha ampliato le
dimensioni della performance sociale ed economica prese in
considerazione, inuenzando in particolare lo Human Development
Index introdotto venticinque anni fa da Mahbub ul Haq (l’indice
classi ca le nazioni in base al loro livello di sviluppo, tenendo conto
dell’istruzione e dell’aspettativa di vita, oltre che del reddito).
12 Nel nostro
contesto, l’approccio delle capacità ci riporta alle ragioni strumentali per
cui essere preoccupati della disuguaglianza di risorse economiche, ma ora
all’interno di un insieme coerente di principi di giustizia.
13 Entro una
simile cornice, il reddito è solo una delle dimensioni, e le differenze di
reddito devono essere interpretate alla luce delle diverse circostanze e
delle opportunità sottostanti. Resta però il fatto che le risorse economiche
ottenute sono una fonte importante di ingiustizia. È il motivo per cui mi
concentro qui sulla dimensione economica della disuguaglianza.
Ma che cosa hanno da dire gli economisti sulla disuguaglianza?
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