Per questo mi chiamo Giovanni – Luigi Garlando

SINTESI DEL LIBRO:
Bum, dimmi chi sei
Papà entrò in camera mia dopo cena. Seduto alla scrivania, stavo
ripassando la lezione di storia. Eravamo arrivati a Garibaldi che
libera tutta la mia Sicilia, poi a un certo punto riceve una lettera e
risponde: "Obbedisco" 1. Solo quello: "Obbedisco". Era un punto che
non mi risultava chiarissimo: perché doveva fermarsi e tornare
indietro, visto che continuava a vincere battaglie su battaglie?
Probabilmente, quando la maestra l'aveva spiegato in classe, mi ero
distratto.
In ogni caso, quell'eroe a cavallo con la barba folta, che batteva tutti,
mi entusiasmava. Vestiva la casacca rossa come David Beckham
del Manchester United, che è la più brava ala destra del mondo. Era
forte come Braveheart 2 che avevo visto al cinema e che
combatteva con la gonna, perché in Scozia portano la gonna anche
gli uomini.
Mio padre si sedette sul mio letto e prese in braccio Bum, lo
scimpanzé di peluche3. Aveva una faccia strana (papà, non lo
scimpanzé), come quando ha qualcosa da dirmi e non sa da dove
cominciare. Bum è strano per un altro motivo: ha i piedi bruciati. È
stato uno dei primi regali che ho ricevuto in vita mia. "Non può
camminare, va tenuto in braccio" mi hanno sempre spiegato. Ma
sorride, quindi vuol dire che non sta poi tanto male.
I miei amici mi invidiano: il lavoro di mio padre è aprire negozi di
giocattoli. Ne ha tre solo a Palermo, uno in viale della Libertà, dove
abitiamo. Posso avere tutti i giochi che voglio, di legno o elettronici,
peluche dell'ultima generazione che parlano, si grattano e ripetono le
tabelline. Ma Bum, nonostante i suoi piedi neri, resterà per sempre il
numero uno. Credo che sia anche il preferito di papà. A volte vedo
che entra nella mia stanza, anche se non ci sono io, e lo accarezza.
Ho sempre pensato che quei due mi nascondessero un segreto. La
sto ria delle zampe bruciate mi risultava strana come l'"obbedisco" di
Garibaldi.
"È una storia lunga. Un giorno te la racconterò."
"Un giorno quando?"
"Quando avrai dieci anni." Il giorno che papà entrò nella mia stanza,
mentre stavo studiando Garibaldi, mancavano tre giorni al mio
decimo compleanno.
"Cos'è successo a Simone?" mi chiese all'improvviso.
"Si è rotto un braccio" risposi.
"Questo lo so, l'ho visto con il gesso."
"È caduto dalle scale."
"Sono stato a scuola. La maestra dice che non è inciampato, ma che
qualcuno gli ha legato le stringhe delle scarpe e poi lo ha spinto giù."
"Non so, papà."
"Ma non siete in classe insieme?"
"Sì, ma non ho visto."
"La maestra dice che eri vicino a lui."
"Si sbaglia, ero rimasto indietro a scambiare delle figurine."
"Sicuro che non c'entri Tonio?"
"T'ho detto che non ho visto, papà…" Quando succedeva qualcosa
di brutto in classe, tutti pensavano subito a Tonio, che aveva tre anni
più di noi e il padre in carcere. Arrivava a scuola senza libri, con le
sigarette nei calzini e un coltellino in tasca. Gli piaceva ripetere: "È la
terza volta che rifaccio la quinta: so tutto a memoria. Che li porto a
fare i libri?". La maestra non lo rimproverava neanche più. L'ultima
volta che lo aveva fatto, prendendolo per un braccio, si era ritrovata
con le ruote della Panda bucate e un bigliettino infilato sotto il
tergicristallo. Coi fratelli grandi di Tonio io non vorrei mai avere nulla
a che fare.
Chiusi il libro di storia, lo infilai nello zaino e ci misi dentro i quaderni
per il giorno dopo. Papà andò alla finestra. Faceva caldo. Era solo
maggio, ma dal mare arrivava già il buon profumo dell'estate.
Papà tolse da uno scaffale l'album delle figurine Panini. Lo sfogliò
con espressione delusa, come fa di solito davanti alle mie pagelle.
"Spendi tutte le mance che ti do in figurine, ti fermi a scuola per
scambiarle con i tuoi amici eppure a fine campionato hai ancora
l'album mezzo vuoto?"
"Sono sfortunato, papà. Compro sempre bustine piene di doppie…"
"Solo sfortuna?" Aveva un'aria strana.
"Puoi dirlo, papà. Mi gioco le doppie con i miei amici e perdo
sempre! In questo campionato sto andando peggio del Palermo…"
Papà rimise l'album al suo posto, tra il vocabolario d'italiano e
l'enciclopedia degli animali. Poi si voltò e mi disse: "Domani ti
racconto la vera storia di Bum. È venuto il momento".
"Ma non ho ancora dieci anni."
"È un regalo anticipato. Domani passeremo tutto il giorno insieme,
andremo al mare e ti racconterò tutto."
"Al mare? Anche al mattino?"
"Tutto il giorno insieme, da mattina a sera: è un racconto lungo."
"Ma domattina ho l'interrogazione di storia…"
"Ho parlato con la maestra e lei è d'accordo con me: la mia storia è
più importante della sua." Ripensai a Garibaldi ed esclamai:
"Obbedisco!".
Ma io lo dissi entusiasta, perché una giornata al mare al posto di
un'interrogazione di storia è un gran bello scambio… E con papà,
soprattutto.
Molti miei amici mi invidiavano per via dei giocattoli, ma io a volte
invidiavo loro perché avevano un padre quasi sempre a
disposizione. Il mio spesso partiva per lavoro e se ne stava via
anche delle settimane. Doveva controllare che in tutti i suoi negozi le
cose andassero bene oppure doveva andare lontano a scegliere i
giocattoli nuovi. "Ho un appuntamento con Babbo Natale" mi
spiegava da piccolo, per farmi ridere.
Io restavo a casa con zia Nuccia, che ha sempre abitato da noi e
che ha una strana mania: parla alle piante. Se deve spostarne una
per passare l'aspirapolvere, prima chiede il permesso: "Ti spiace,
Ficus Beniamino? Grazie, faccio in un attimo, poi ti rimetto a posto".
Una giornata insieme, dal mattino alla sera, era il miglior giocattolo
che papà potesse regalarmi per il mio compleanno.
"Dormi" mi disse. "Domani dovremo fare un sacco di cose.
Buonanotte." Uscì e spense la luce della mia camera.
Io accesi la torcia che tengo sempre sul comodino e illuminai la
faccia allegra di Bum: "Presto saprò chi sei davvero, finalmente".
2
Gli uomini non piangono
La mattina dopo, zia Nuccia preparò il solito cappuccino per me e un
caffè per papà, che entrò in cucina sbadigliando, già vestito, con lo
zaino in spalla. Nel mio avevo infilato il costume, un ricambio di
biancheria e il telo spugna.
Prima di uscire di casa, papà raccolse un vaso in corridoio e mi
strizzò l'occhio. Come a dire: "Preparati…".
Infatti zia Nuccia accorse subito: "Dove credete di portare quella
creatura?".
Papà rispose serio: "Ci serve una… piantina per non perderci nel
traffico".
Zia Nuccia gli strappò il vaso di mano: "Filate fuori!".
Prendemmo il gippone, come lo chiamiamo noi, cioè il nostro
fuoristrada con le ruote grosse, e percorremmo tutto viale della
Libertà, verso il centro, attraverso il solito traffico infernale di
Palermo. Passammo vicino a quella bella confusione di gente che è
il mercato della Vucciria e girammo in direzione del porto, dove le
strade cominciavano a farsi sempre più strette e le case sempre più
brutte. Una di queste viuzze sbucava in una specie di piazza,
occupata per gran parte da un prato verde. Parcheggiammo il
gippone.
"Un tempo in questa piazza c'erano delle case che poi sono state
abbattute" spiegò papà. "Se ci fai caso, infatti, mancano i numeri
bassi di via Castrofilippo.
Via Castrofilippo iniziava da questo prato, dove c'era il palazzo al
numero 1." Ci incamminammo verso il centro del prato. "Oggi il
quartiere è ridotto un po' male e ha tanti problemi, ma allora era una
delle zone più belle di Palermo e ci abitavano persone importanti. I
muri di queste case non erano scrostati, i palazzi avevano eleganti
portoni di legno, cortili pieni di luce, scalinate bianche, lunghi balconi
di ferro e persiane verdi.
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