Prima che arrivassi tu – Tania Paxia

SINTESI DEL LIBRO:
Sei sicura di voler partire?” mia sorella mi lanciò uno
sguardo torvo ma comprensivo, con i suoi occhi azzurri, di una
tonalità intensa come quelli di mio padre, così diversi dai miei di
un colore castano chiaro.
Quando lo faceva era un brutto segno, perché voleva dire che
aveva dismesso i panni dell’amica per indossare quelli della sorella
maggiore. E non maggiore di qualche anno, ma di dieci. Era quasi
una seconda mamma. Aveva ragione a farmi quella domanda,
perché l’indomani, mercoledì, avrei dovuto prendere un aereo diretto
a New York. Anche se non ero dell’umore adatto a intraprendere un
viaggio di quasi dieci ore.
Rebecca – Becky per gli amici e familiari – era quella laureata in
architettura, con un lavoro rispettabile, in maternità dopo aver avuto
il suo primo figlio l’anno prima, sposata da cinque anni con Fabio, il
suo fidanzato storico, nonché collega, conosciuto il primo anno di
università. Lei era quella con la testa a posto. Lei era quella che si
era costruita una famiglia e un futuro fin da ragazzina, lavorando
d’estate per mantenersi gli studi, senza chiedere un soldo ai nostri
genitori. E poi era sempre stata carina, gentile e disponibile con tutti.
Insomma, lei era tutto il contrario di me, che ero considerata la
simpaticona della famiglia, che a ventuno anni non aveva ancora
ben capito cosa fare nella vita. Avevo cambiato tre – e dico tre
facoltà diverse in tre anni: la prima era stata ingegneria edile con
l’indirizzo in architettura, costretta per forza di cose, visto che mio
padre era un architetto e mia sorella si era laureata nel medesimo
indirizzo di studi, seguendo le sue orme. Il bello è che avevo anche
superato il test dell’esame d’ingresso perché la facoltà era a numero
chiuso. Papà, Becky e Fabio mi avevano preparato a quell’esame
sin dalle superiori. Con tutti quegli architetti in famiglia, avrei potuto
fallire? No.
Ma purtroppo non faceva per me. Così avevo chiesto il
trasferimento l’anno dopo, senza dire niente alla mia famiglia, alla
facoltà di lettere e l’anno dopo ancora a lingue e letteratura straniera.
Mio padre se ne era accorto da pochi giorni, per caso, durante
una cena tra architetti, alla quale aveva partecipato anche il
professore di ‘Disegno dell’architettura’ e allora la copertura era
saltata ancora prima di fargli la sorpresa di avere un’altra figlia
laureata. Non certo nella materia che avrebbe voluto lui, ma almeno
ero agevolata dal fatto che parlavo due lingue dalla nascita, grazie a
lui che era americano e si era trasferito in Italia per amore di mia
madre. Nel corso degli anni avevo coltivato l’altra mia passione,
ovvero la scrittura. Ero riuscita a finire di scrivere due romanzi, uno
dei quali lo avevo anche tradotto in inglese. Avevo cominciato a
scrivere seriamente alle superiori, durante l’estate. Era diventato
quasi un lavoro, perché mi portava via gran parte del tempo e non
riuscivo a fare altro, se non avere un minimo di vita sociale. Da
quando mi ero iscritta all’università, scrivevo tutte le sere, dopo
cena, ma anche di pomeriggio, invece di studiare. Eh lo so. Non
avrei dovuto, ma la passione e la voglia di finire un romanzo era
talmente tanta da oscurarmi persino la ragione.
La sera stessa della scoperta avevo litigato con i miei genitori
più con mio padre in realtà – ed erano volate parole pesanti.
Molto. Pesanti.
Il
fatto era che mio padre non mi aveva mai trattata in quel
modo. Mai. Era severo, ma non si era mai permesso di offendermi o
di tirarmi un ceffone in piena regola, neanche quando aveva
scoperto il mio meraviglioso ed enorme tatuaggio che partiva dalla
spalla destra e finiva sulla scapola o il piercing nella parte superiore
dell’orecchio con due fori e una piccola barra che passava da parte a
parte.
Con quello schiaffo, più che un male fisico avevo sentito un
profondo dolore al cuore, come se si fosse rotto in mille pezzi.
Peggio di una delusione amorosa o di una lite con gli amici di una
vita. Quello che mi aveva fatto più male, però, era il suo sguardo
furente e allibito. Lo avevo proprio deluso e mi ero sentita uno schifo,
ma anche, in un certo senso, sollevata perché mi aveva scoperta e
liberata da un peso enorme sulla coscienza e dell’acidità di stomaco
che mi aveva tormentato ogni giorno da tre anni. Non ero fiera di ciò
che avevo fatto, ma glielo avevo nascosto perché avevo avuto paura
di fallire, di sbagliare, perché reggere il confronto con mia sorella era
a dir poco impossibile.
Ero uscita di casa in fretta, tra le lacrime e avevo chiesto asilo
politico a mia sorella e mio cognato, che mi avevano concesso di
dormire sul divano nella loro casa microscopica, ma ben piazzata nel
centro di Pisa, nelle vicinanze di Piazza del Duomo. Erano quattro
giorni che non vedevo né sentivo i miei genitori, ma Becky era
passata da casa per prendere alcune mie cose e li aveva
tranquillizzati, informandoli che stavo bene. Bene…era un parolone,
ma almeno avevo smesso di piangere e singhiozzare.
“Magari quando le acque si saranno calmate”, mi mise una
mano sulla spalla, sedendosi accanto a me sul divano a due
posti di similpelle bianca, del soggiorno-cucina-ingresso
arredato con un mobilio semplice e funzionale, “tu e papà
parlerete di nuovo e vi chiarirete come si deve. Lo sai com’è
fatto. Non tollera essere preso in giro, soprattutto per quanto
riguarda i soldi”.
Non avevamo mai avuto problemi economici, ma non eravamo
neanche facoltosi, quindi il fatto che io avessi perso tempo con gli
studi, spostandomi da una facoltà all’altra, senza concludere
granché, lo aveva preso come una mancanza di rispetto nei suoi
confronti, ma anche un inutile spreco di denaro. “Tu stai giocando
con il tuo futuro, senza renderti minimamente conto delle
conseguenze”, mi aveva urlato contro mio padre. “Sei
un’irresponsabile. Una nullafacente. Ecco cosa sei. Hai ventun anni,
è ora che tu ti assuma le tue responsabilità e che tu molli quel
computer e quei cazzo di libri che scrivi! Prendi i libri dei corsi
universitari e studia quelli, invece di perdere tempo nei romanzi che
non verranno mai pubblicati. È l’ora che tu apra gli occhi. Hai capito?
La scrittura è solo una perdita di tempo. E il tempo è denaro. La retta
universitaria mica me la regalano, sai? Qui l’unico che paga sono io,
non tu”. Aveva continuato a rivolgersi a me in inglese, con il suo
speciale accento americano. Quando si arrabbiava gli veniva
naturale parlare nella sua lingua madre. Io avevo cercato di
rispondere con educazione, ma lo avevo offeso a mia volta,
rincarando la dose, a voce alta: “Non hai mai capito un cazzo di me”.
Ed è lì che non ci aveva visto più ed era scattato il sonoro,
fulminante e potente schiaffo. Era stato così forte, da farmi voltare
dall’altro lato e a farmi barcollare. Mi aveva guardato con un’aria
scioccata e pentita, ma non aveva aperto bocca per scusarsi. A mia
madre era sfuggito un urlo, che aveva soffocato coprendosi la bocca
con una mano. Aveva tentato in tutti i modi di trattenermi, senza però
riuscire nell’intento. Ero scappata di casa, scendendo di corsa le
scale del condominio dove abitavamo in centro storico ed ero uscita
dall’immenso portone per poi rimettermi a correre come una
forsennata per qualche chilometro.
“Non credo, Becky. Era proprio incazzato stavolta”. Il mio
tono di voce, di solito sottile, allegro e spensierato, risultò
essere graffiante, sfibrato da ore ed ore di pianto. La sua stretta
attorno alla mia spalla aumentò, per infondermi un po’ di
coraggio. “Ormai è deciso. Claire, Jo, Eve e il resto della
famiglia mi hanno regalato il biglietto per il compleanno e la data
non è modificabile. Praticamente mi hanno costretta a
trascorrere l’estate insieme a loro a Brooklyn”.
Scosse la testa. “Vedrai che papà ci ripenserà su e…”
“Becky, io non so se riuscirò a dimenticarmi le cose che mi
ha detto”, cominciarono a pizzicarmi gli occhi, già gonfi e
arrossati per le lacrime.
Si aggiustò due ciuffi di capelli corti, tagliati in un caschetto
scalato, di una tonalità biondo scuro, che le erano sfuggiti da dietro
le orecchie. Il suo volto era squadrato e stanco per via della notte in
bianco, non dovuta a me, ma ai pianti di Stefano, mio nipote. Non
aveva fatto dormire neanche me con le sue urla di dolore per le
coliche. Poi Becky aveva chiamato mia madre alle quattro di notte e
le aveva consigliato di metterlo a pancia in giù, nel lettino, e pian
piano era riuscita a farlo addormentare. Ma io non avevo chiuso
occhio lo stesso.
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