Siete persone cattive – Storie comiche di mostri italiani – Edoardo Ferrario

SINTESI DEL LIBRO:
Dani’, lo sai a me che me piace de New York? La gente. Me piace
quando la ma ina esci, te bu i pe’ strada e incroci le facce della
gente che passa. Pare che te conoscono tu i, proprio perché stai lì
pure tu. Ma anche quelli che incontri la sera nei deli, le vecchie e col
cane, quelli che fanno jogging, le pischelle che conosci alle feste… te
senti fortunato solo a sta’ lì. Te fa veni’ voglia de fa’ le cose fa e
bene, come dice la canzone de Jay-Z, “’ste strade te fanno senti’
nuovo, le luci ti ispirano…”. La conosci la canzone, Dani’?»
Rapida occhiata all’orologio. Sono già le 21.15. «La canzone di Jay
Z, dici? Quella con Alicia Keys?»
«Insomma, Dani’, io me sento bene solo a New York. Me sa che a
o obre parto, ce vojo anna’ un mese. Vojo riposamme, ma pure
lavora’. Vado a senti’ quanto costa aprire un corner in un mall.
Secondo me je la famo, al primo giro se famo conosce’, se sparge la
voce… poi magari famo er salto. Voi veni’ pure te?»
La visita pomeridiana al suo assistito si era già protra a ben oltre
il
previsto. Questa non ci voleva. «Silvano, non puoi partire a
o obre. Il 12 iniziamo le riprese.»
La frase risuona grave nell’appartamento, come un colpo di gong.
D’altra parte l’arredamento non invita a conversazioni adulte:
tappezzeria a motivi caraibici, un enorme coccodrillo di plexiglass
appeso al muro – l’ultima volta non c’era: ha ricominciato a bu are i
soldi? –, una poltrona a forma di fenico ero rosa – francamente
eccessiva –, ananas e banane disegnati ovunque. Silvano posa la
canna e fissa la sua agente con sguardo sicuro: l’espressione che fa
quando non ha capito niente. Si me e male. «Che riprese?»
Una fi a nervosa colpisce Danila appena so o la nuca. Bastava
così poco ormai per farle perdere la pazienza? L’insegna al neon sul
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muro emana una luce rosa insopportabile, le le ere compongono la
parola: GRICIA. I riflessi colorano la testa del suo assistito, la cui
calvizie è sempre più palese. Annota mentalmente la necessità di
affrontare un cambio look nel giro di pochi mesi, dovrà parlarne con
gli sponsor. «Le riprese per il programma su Real Time… non te lo
ricordi?»
Le note di una hit di tre estati fa escono dal frigorifero,
un’edizione limitata della Bosch in collaborazione con la Bose.
Takagi & Ketra, chiaramente. Silvano fa di nuovo “la faccia”. «Ma io
non lo voglio fa’ Real Time.»
Danila posa la borsa sul fenico ero. Può dire addio ai suoi
programmi per la serata. Sono le nove passate, i suoi amici staranno
già mangiando. A trentanove anni non ha ancora capito come si fa
ad affrancarsi dal lavoro la domenica sera. È troppo tardi per
imparare?
«No, abbiamo deciso che non vogliamo fare il giudice a “Italia’s
Got Talent” perché siamo fuori contesto. Su Real Time facciamo il
programma sul tuo ristorante.» Ma perché continua a usare la prima
persona plurale quando parla di lui? Del resto lo fa con tu i i suoi
artisti. Senso di protezione verso di loro o incapacità di assumersi le
proprie responsabilità?
Lo scemo la guarda catatonico. Allunga la mano sul tavolo verso
gli occhiali da sole. Danila lo ferma, manco stesse per impugnare
una pistola. «Silvano non ti azzardare, ascoltami!» La voce stridula
sorprende entrambi: lui fa un’espressione tipo ga ino in pericolo, lei
lo guarda come per scusarsi. In effe i, c’è solo una cosa peggiore di
quando Silvano fa la faccia: quando indossa pretestuosamente gli
occhiali da sole. Il segnale che non ci ha veramente capito un cazzo.
«Dani’, abbi pazienza, s-s-so’ pieno de la-lavoro, non m-m-me
posso ricorda’ tu o!» Tartaglia, sta perdendo il controllo. Si alza di
sca o dalla poltrona con un gesto teatrale completamente inutile,
rovesciando il contenuto di mezza Peroni sul tappeto camouflage. Il
tessuto assorbe il liquido per sempre, così velocemente da non
perme ere a nessuno dei due alcuna reazione, a parte una silenziosa
constatazione del danno. «Quanto me davano?»
«Oanta.»
«A puntata?»
«Ma sei cretino? Perché ti devo ripetere sempre le stesse cose?
Sono o antamila per tu a l’edizione. Ti ho già spiegato che con la
visibilità che avrà il ristorante, sarai al completo tu e le sere per un
anno e mezzo.»
Silvano guarda verso la cucina, il frigorifero sembra posseduto da
Giusy Ferreri che sbraita qualcosa sull’amore nelle favelas. Lui non ci
fa caso. Forse si sta immaginando a Manha an, il suo corner di fri i
al The Shops at Columbus Circle, l’articolo entusiasta del “New York
Times”, la fila dei turisti e centinaia di foto tu e uguali dei supplì
sbocconcellati condivise su Instagram, i romani che le
accompagnano con l’hashtag #saporedecasa.
Sembra sul punto di piangere. È fa issimo? «Vabbè. Ma io ce
devo sta’?»
“Lo sta chiedendo davvero? Meglio fingere di non aver capito”
pensa lei. «Sta’ tranquillo, non devi scrivere niente, fanno tu o gli
autori. Tu devi solo girarlo. In tre, massimo qua ro se imane hai
f
inito tu o. Poi se ti va andiamo anche a New York.»
Silvano si rituffa nella poltrona, riaccende la canna e inforca
impunemente gli occhiali da sole. «No, dico nelle puntate, me se
deve vede’ o no? Non posso fa’ solo la voce fuori campo?»
La guarda come per cercare il suo assenso, non si accorge che lei
ha gli occhi chiusi e i pugni stre i. Qualcosa gli dà uno slancio
improvviso.
«Sennò aspe a, aspe a! Senti che idea: il protagonista è Monir! Il
programma lo chiamamo: “Pia i chiari, amicizia lunga”! Ma chi ce
l’ha il programma col lavapia i? Porcoddue che bomba, Dani’, che
t’ho creato!» Silvano esplode in una risata isterica, sembra stia
soffocando per quanto diventa rosso.
Danila cerca di vedere la sua espressione dietro le lenti. Purtroppo
riesce a leggere soltanto: “Gricia”.
Non è stato facile per Silvano Morgagni diventare la nuova chef
star del panorama italiano. A trentase e anni è uno dei più influenti
imprenditori under quaranta e sicuramente il più popolare: se solo i
follower fossero euro, sarebbe due volte milionario.
Com’è riuscito questo ragazzo partito da viale dei Colli Portuensi
ad arrivare alle ve e della ristorazione? Pensate ai gabbiani di Roma.
Quando volano, sfru ano le correnti ascensionali, librandosi nell’aria
senza troppo sforzo. Lui, come un gabbiano, si è lasciato trascinare
su, seguendo una corrente sicura: la passione dei romani per il cibo.
Nel 2001, a dicio ’anni, Silvano pensava solo a due cose: praticare
Taekwondo e fare soldi. Nessuna delle due gli riusciva con
particolare successo. Iniziò in un chiosco di panini a Monteverde
Nuovo. Il suo capo, un ex rapinatore affiliato alla Banda della
Magliana, gli faceva togliere la muffa dagli hamburger scaduti con
uno sco ex. Quando arrivarono i Nas per chiudere l’a ività, lo street
food romano era già entrato in una nuova fase: cominciavano a
vedersi i primi bistrò finto vintage. Sui muri di vecchie be ole
apparvero le lavagne e coi pia i del giorno, i menu sporchi di sugo
sembravano usciti da una tipografia anni Trenta del secolo scorso e i
dessert del supermercato venivano serviti in irresistibili bara oli
dell’Ikea. I romani persero la testa, gente che aveva ereditato dal
nonno un locale di categoria C1, lurido con canna fumaria fece
abbastanza soldi da potersi comprare due case.
Dopo il 2010 arrivarono i ristoranti che, a giudicare dal nome, si
sarebbe de o che cucinassero un pia o solo di due sillabe: Orzo,
Farro, Sugo, Buono, Crudo, Freddo, Molto, Maschio, Falso, Finto,
Tenue, Tenia. I più coraggiosi osarono aprire locali trisillabici: Farina,
Zenzero, Antico, Aceto, Pestato. Una sera Silvano era a cena da
Sapido, il nuovo locale di un suo ex compagno di scuola. Insieme al
menu si vide presentare la carta dei sali: poteva scegliere fra il rosa
dell’Himalaya, il grigio dell’Atlantico, il blu di Persia e il rosso delle
Hawaii, che prevedeva un’aggiunta di tre euro. Quella sera capì che
era giunto il momento di aprire il suo ristorante.
Ma poteva arrivare al successo in un mercato ormai saturo? In
quegli anni, il modello di ristorazione prevedeva che uno chef, come
un alchimista, scoprisse la rice a perfe a per un pia o specialissimo
e lo facesse suo per sempre, legandolo al suo nome come un brand:
“La pizza al sugo” di Stefano Pancinomi, “La polenta tartufata” di
Bruno Ignobili, “Il gelato al carciofo” di Liviana Calmierati.
Silvano intuì che aprire l’ennesima osteria dal nome bisillabico
sarebbe stato un suicidio. Bisognava pensare a qualcosa cui nessuno
aveva dato ancora la giusta importanza.
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