Prima l’italiano – Vera Gheno

SINTESI DEL LIBRO:
Due segnetti appena percettibili, eppure possono provocare
scontri violentissimi! Andiamo con ordine.
L’APOSTROFO è il segno che:
• indica l’elisióne, cioè la caduta dell’ultima vocale àtona, ossia
non accentata, di una parola, davanti alla vocale iniziale della parola
seguente. In questo caso, tra la parola elisa e apostrofata (per
esempio un articolo) e la parola seguente non va inserito uno spazio
aggiuntivo: l’apostrofo, non *l’ apostrofo;
• in alcuni casi, ma non sempre, l’apostrofo indica anche
l’apòcope (o troncamento), cioè la caduta di una vocale, una
consonante o una sillaba in fine di parola, dopo una vocale. In questi
casi, invece, tra la parola apocopata e quella successiva c’è uno
spazio: va’ via!, non *va’via!.
Nelle date in cifre arabe (cioè 1, 2, 3 ecc., mentre le cifre romane
sono I, II, III), l’apostrofo segnala la soppressione del millennio o del
centesimo:
le vicende del ’900;
la guerra del ’15-’18. In questi casi,
l’apostrofo è preceduto da uno spazio e dovrebbe essere rivolto
verso sinistra, non verso destra: ’800, non *‘800). E se prima della
cifra ci fosse una parola elisa, ad esempio una preposizione
articolata, uno dei due accenti si omette: dell’800, non *dell’’800.
L’ACCENTO è il segno che si trova sulla vocale della sillaba
tònica (cioè quella su cui cade l’accento). Normalmente, in italiano
lo indichiamo solo quando l’accento cade sull’ultima sillaba: così,
perché, è. Anche se a scuola siamo abituati a disegnarlo “a
barchetta”, e questo poi ci trae in inganno quando dobbiamo digitare
al computer, esistono due tipi di accento (più un terzo, usato oggi più
raramente).
Accento acuto: è quello che, dalla vocale, va verso in su a
destra. Indica le vocali chiuse (quelle pronunciate tenendo la bocca
stretta), come la e di affinché o né. Nei testi, lo troveremo
principalmente indicato sulla e, più raramente sulla o a indicarne una
pronuncia chiusa: atróce. Ma per le parole italiane l’obbligo di
indicare l’accento acuto si ha praticamente solo per quelle che
finiscono con la é.
Accento grave: è quello che, dalla vocale, va verso in su a
sinistra. Indica le vocali aperte (quelle pronunciate tenendo la bocca
aperta), come è voce del verbo essere o ò di però (o, per chi è
cresciuto nel Centro Italia, la e di pèsca, il frutto dalla buccia
vellutata). Solitamente, nei testi stampati si trovano accentate con
l’accento grave anche le altre vocali a parte la e e la o, ossia à, ì e ù
(per le quali non abbiamo una pronuncia aperta o chiusa, e quindi
convenzionalmente vengono indicate così sempre).
CURIOSITÀ
La casa editrice Einaudi, nei suoi libri, usa l’accento acuto anche sulla í e sulla ú
(colibrí e giú; mentre normalmente nella stampa troveremo scritto colibrì e giù).
Mentre le altre case editrici seguono un criterio di semplificazione grafica (in italiano,
la i e la u accentate si pronunciano in un unico modo: non ce n’è una chiusa e una
aperta), Einaudi sceglie di rimanere aderente al modo in cui quelle vocali si
articolano (se ci fai caso, si pronunciano con la bocca stretta, più simili a é che non a
è). In ogni caso, non si tratta di “errori di stampa”, ma di una scelta consapevole.
Esiste poi l’accento circonflesso. Solitamente è fatto a forma di
“cappellino” sulla lettera, come â, ê, î, ô, û. Lo si incontra raramente,
in italiano, e oggi ricorre al massimo per indicare il plurale di parole
che finiscono in -io come
principio > principî (in alternativa, si
potrebbe trovare anche scritti princìpi).
Non confondere accenti e apostrofi! Hanno usi diversi. Una volta,
agli inizi dell’era Internet, le vocali accentate potevano provocare
problemi di codifica ai computer, e quindi si preferiva indicare la
parola accentata mettendo un apostrofo (in realtà un apice, ma il
simbolo è lo stesso) accanto alla lettera che avrebbe dovuto avere
l’accento: in breve, si scriveva *perche’ o *cosi’. Oggi qualche
vecchio “nerd” lo fa ancora, anche se non ce n’è alcun reale bisogno
(ma magari la persona che usa questa convenzione si trova
all’estero e non ha accesso immediato alle lettere accentate, tipiche
della tastiera italiana: sii indulgente).
Pazienti speciali
• Po’ si scrive con l’apostrofo, non con l’accento: *pò è sempre
sbagliato. Si tratta di un troncamento (è caduta la sillaba -co di
poco), ed è uno di quei casi in cui la sillaba rimasta viene
apostrofata.
• Il nostro mitico fiume invece si chiama Po senza accenti e
apostrofi, mentre la zona dell’Oltrepò pavese si può scrivere sia con
sia senza accento.
• Qual è si scrive senza apostrofo: *qual’è è considerato, oggi,
sbagliato dalla maggioranza delle persone, e viene pesantemente
sanzionato a scuola. È considerato un errore socialmente
riprovevole, anche se esiste nella tradizione una corrente di scrittori
(tra cui Pirandello) che lo usano e linguisti (tra cui Salvatore Claudio
Sgroi) che lo ritengono corretto. La motivazione principale alla grafia
non apostrofata è che qual esiste come parola autonoma e
indipendente accanto a quale (come nella famosa frase
qual buon
vento!, sempre citata come esempio, anche perché è praticamente
l’unico caso in cui ricorre qual). Chi, invece, ritiene di apostrofarlo,
pensa fondamentalmente che qual sia un relitto grafico ottocentesco,
e che come tale possiamo anche mandarlo in pensione (del resto,
oggi scriviamo pover’uomo, non *pover uomo). In ogni caso, poiché
*qual’è continua a provocare accuse di ignoranza, se vuoi vivere più
tranquillo continua per il momento a scriverlo senza apostrofo: i
tempi forse non sono ancora maturi per lo “sdoganamento” della
versione apostrofata.
• L’apostrofo in fin di rigo si può fare in tre modi diversi. Il più
comune è di mantenere integro il raccordo che lo contiene, quindi
dell’amore diventa del-l’amore o dell’a-more. Soprattutto in
passato si insegnava anche a scrivere dell’-amore (con l’apostrofo
lasciato in fondo al rigo), che non si può considerare errato
nemmeno oggi. Evitiamo, invece, integrazioni di vocali come *dello
amore.
• Poiché gli accenti non sono tutti uguali, occorre fare caso a
usare quello giusto: si scrivono con quello grave cioè, è, tè, caffè,
sfottò, però; si scrivono con quello acuto né, perché, affinché,
trentatré (e tutti i composti di tre), viceré, poté, olé (alé).
• Si scrivono con l’accento anche i nomi dei giorni della
settimana: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì (sabato e
domenica non hanno accenti, ma hanno il plurale, ricordiamolo:
sabati e domeniche. Non si scrive *
tutti i sabato).
• Ce n’è si scrive così perché viene da ce ne è, con il ne che
viene eliso. Non scrivere *c’è ne o *c’è n’è. Semplicemente, ne si
può elidere: ce ne è uno diventa ce n’è uno; oppure, ne rimane tale
e quale in una frase come ce ne sono tanti.
• Ce l’ha e ce l’ho, cioè ce lo ha e ce lo ho. Da non confondere
con ce la e ce lo:
Maria ce l’ha detto subito;
Quel vestito ce l’ho
anch’io e
Ce la siamo vista brutta;
immediatamente, il raffreddore.
• Diversamente da di preposizione (
Ce lo siamo presi
di questo
di quello) si scrive
con l’accento anche dì, cioè giorno: una compressa al dì.
,
• Al contrario, il li che spesso si trova tra il luogo e la data nei
documenti burocratici (
Firenze, li 12/3/2019) va scritto senza
accento: è una forma arcaica di articolo determinativo plurale (i o gli)
e indica i giorni, non il luogo. Chi scrive *lì fa un errore davvero
grossolano, eppure diffusissimo.
• Esiste ne senza accento (vedi sopra):
né con accento (congiunzione negativa):
ne voglio due;
vattene! E
non voglio né questo né
quello;
non mi ha chiamato né scritto. Non confonderli! Invece, *nè
non esiste proprio: attenzione alla direzione dell’accento!
• Quando vuoi dire che c’entra? (nel senso di “che cosa ci
azzecca, che cosa ha a che fare questo con quello?”) va scritto così,
perché è l’elisione di ci entra. Il verbo all’infinito è entrarci (“avere a
che fare con qualcosa”), non centrare, che vuol dire “colpire il
bersaglio al centro”, e nemmeno *c’entrare, che in questa forma non
esiste. In altre parole:
Non capisco cosa c’entri questo,
cosa possa entrarci questo, non *
non capisco
Non capisco cosa possa
centrare/centrarci/c’entrare questo. In compenso,
Luigi centra
sempre il bersaglio. A essere precisini, che c’éntra si pronuncia con
la e stretta, cèntra il bersaglio con la e aperta. Ma non tutti gli italiani
sono in grado di percepire questa differenza.
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