Al di là delle intenzioni Luigi Zoja

SINTESI DEL LIBRO:
Il cuore dell’analisi è etico:
si propone di combattere la
menzogna, prima di tutto
quella che raccontiamo a noi
stessi. L’etica dell’analisi non
è dunque un espediente per
dare rispettabilità alla
professione. È una presenza
originaria. Non ci
affaccendiamo per anni con i
sogni e le fantasie inconsce
di qualcuno perché è
stimolante. Siamo alla
ricerca di una maggiore
sincerità. Vogliamo
comprendere. La vita è
troppo preziosa per essere
vissuta tra convenzioni
contrarie a quello di cui
abbiamo intimamente
bisogno, nate da imposizioni
esterne, ma anche da noi
stessi.
L’analisi1 è una
conoscenza umanistica. Non
è una scienza esatta come le
scienze della natura. Questo
significa che non può essere
moralmente neutrale, come
la chimica, ad esempio,
utilizzabile per la produzione
di medicine ma anche di
veleni. Le scienze umane (o
scienze sociali, o scienze
dello spirito:
Geisteswissenschaften nella
definizione di Dilthey) si
fondano sull’essere umano e
sulla società umana. In
inglese, non a caso, a partire
dal XIX secolo esse sono state
chiamate moral sciences, un
termine molto significativo
per il nostro discorso.
Questo obiettivo etico ha
un corollario: se l’analisi
cerca trasparenza e rispetto,
essa non può fiorire in una
società che calpesta queste
qualità. Dimostrarlo è facile:
in Italia durante il fascismo
l’analisi non era proibita,
eppure perdurò in uno stato
di non-esistenza. Non a caso
i pochi analisti e gli sparuti
gruppi di pazienti erano
quasi sempre oppositori del
regime. In quegli anni i
sostenitori dell’analisi
dichiaravano che si trattava
di una tecnica neutrale, non
di un’impresa morale. Se
l’analisi si fosse sviluppata
davvero durante l’era
fascista avrebbe dovuto
darsi un codice etico e
questo fragile strumento si
sarebbe trovato a
fronteggiare difficoltà assai
maggiori rispetto ai nostri
giorni. L’esercizio acritico
del potere e il maschilismo
erano parte della vita
quotidiana. Difficile, quindi,
metterli in discussione. Le
prime generazioni di
psicoanalisti erano quasi
esclusivamente composte da
uomini. Tra i pazienti,
predominavano invece le
donne. In diversi casi il
rapporto professionale si
trasformò in relazione
personale e sessuale.
Oggigiorno, un tale
comportamento sarebbe
considerato
prevalentemente abuso
professionale, ma a quei
tempi i codici mancavano.
Una attività professionale
non può sottrarsi ai tratti
caratteristici dell’ambiente
nel quale è praticata. Ancora
oggi, soprattutto nei paesi
latini, benché l’analisi sia
ampiamente penetrata in
molti livelli della società,
questo retaggio storico
rende più ardua
l’introduzione di parametri
etici.
A partire dal 1936, nella
Germania nazista con la
fondazione del Deutsches
Institut für psychologische
Forschung und
Psychotherapie si creò una
situazione particolare. Tale
istituto permise, sotto la
direzione del medico e
psicoterapeuta adleriano
Matthias Heinrich Göring,
cugino del gerarca Hermann
Göring, la pratica e
l’insegnamento delle tre
principali correnti
psicoterapeutiche –
freudiana, adleriana e
junghiana – camuffate sotto
la dicitura, rispettivamente,
di «Gruppo di lavoro A, B e
C», ad opera degli
psicoterapeuti rimasti in
Germania. Secondo Geoffrey
Cocks il cosiddetto Istituto
Göring favorì in una certa
misura l’istituzionalizzazione
della psicoterapia in
Germania, fermo restando il
divieto di trattare pazienti
ebrei, che tuttavia non
sempre venne rispettato. La
teoria psicoanalitica era già
ripudiata per via delle sue
origini ebraiche, antitetiche
alle aspirazioni völkisch di
costruire una nuova «terapia
germanica dell’anima» (neue
deutsche Seelenheilkunde).
In questo modo fu distorta
anche la sua applicazione
clinica, spesso condotta in
forma semiclandestina.2
Esamineremo l’etica della
terapia come ramo dell’etica
in generale. Qualunque
ramo ha origine da un
tronco; quindi non dobbiamo
mai perdere di vista l’intero
albero: anzi, come il senso
comune ci suggerisce,
dobbiamo iniziare partendo
dalle radici.
Ai nostri giorni, sotto i
titoli «etica della
psicoterapia», «etica della
psicoanalisi» ecc., troviamo
(soprattutto in lingua
inglese) un’infinità di testi.
Oltre ai loro titoli, anche i
risvolti di copertina
promettono in genere di
esaminare in modo completo
l’etica di queste professioni.
Sfogliandoli, però, ci
rendiamo conto che trattano
quasi esclusivamente
specifiche situazioni che si
creano durante il
trattamento dei pazienti, e
propongono regole per
affrontarle: cosa è permesso,
cosa deve essere
assolutamente vietato, quali
punizioni vanno inflitte se i
limiti sono stati oltrepassati,
quali procedure seguire per
far rispettare le norme e
comminare sanzioni.
Insomma, la letteratura
dell’etica psicoterapeutica si
occupa quasi esclusivamente
di questi singoli rami, alle
radici viene data scarsa
importanza, come se non
riguardassero ciò che nutre
e fa crescere la pianta. Tale
modo di procedere somiglia
a quello di una persona che
entra in un tempio a pregare
senza nemmeno sapere
quale Dio vi sia venerato.
Quali sono i principi morali
che le regole aiutano a
rispettare?
Sorprendentemente, questi
testi di «etica» non ne
parlano.
Libri di questo tipo si
propongono di tradurre in
realtà professionale
quotidiana un sistema di
valori senza spiegare su
cosa questa applicazione si
fonda, come se gli autori ne
fossero ignari o se a loro non
interessasse. È vero che le
radici di solito sono
sotterranee e quindi
invisibili. Ma il patrimonio
ideale di Freud e Jung sta
proprio nella scoperta
dell’importanza di ciò che
non può essere
immediatamente percepito.
L’invisibilità delle radici non
autorizza certo a non
guardare in profondità:
esige, anzi, dalla «psicologia
del profondo» l’impegno ad
affinare lo sguardo
puntandolo sull’invisibile.
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