Disintegrati – Elisabetta Votta

SINTESI DEL LIBRO:
Uscita dalla metropolitana, Roma mi buttava addosso il sole
sfacciato di giugno.
È bella, Roma, alle soglie dell’estate: frigge di vita e brulica di
sogni, che si vanno a perdere nel blu profondo delle notti e nell’eco
lontana di grilli e di cicale.
Mancavano pochi mesi alla laurea e l’attesa dell’estate si
mescolava all’attesa del futuro da inventare.
Con il sole in faccia e la testa leggera mi ero avviata verso una fila
di alti palazzi, anacronistici nella loro monumentalità, signorili e
perbene, tipiche abitazioni di chi Roma la vive da sempre, non di chi
è di passaggio, come quelle a cui ero abituata.
Avevo suonato toccando il campanello in punta di dita e mi era
venuta ad aprire una signora dai lunghi capelli e dal fisico snello, che
senza parlare mi aveva condotto in fondo a un corridoio lucido.
In una stanza che l’altezza del soffitto dilatava a dismisura, su un
tappetino blu, giaceva Lia, un mucchietto rattrappito di ossa che
emetteva suoni disarticolati e che stringeva con tutta la forza
possibile il dito di una ragazza seduta vicino a lei.
Quello è stato il primo incontro con l’handicap per me che di
handicap non avevo sentito parlare mai: nella vita spensierata
condotta fino a quel momento non esisteva questa dimensione che
ora entrava, in modo violento, nel mio campo visivo e vitale.
A pensarci adesso, è strano che fino a ventitré anni non avessi mai
visto un disabile: forse, nella cittadina di provincia in cui ho vissuto, li
tenevano a casa, questi ragazzi, e fuori non se ne vedevano, come
qui a Roma, e ce ne sono tanti che spiano la vita da una finestra.
Fuori da quella porta era rimasta la mia innocenza: non può più
essere la stessa vita di chi ha visto il grumo di dolore che c’è in
alcune case, uno sprazzo della tragicità dell’esistenza che
nascondiamo dietro mille luci colorate. Avevo sentito, dentro di me,
una sensazione strana che ancora oggi non so definire, una
mescolanza di paura ed esaltazione: quello che era certo era che i
libri che avevo letto non sarebbero bastati.
Lia era qualcosa a cui avvicinarsi con circospezione: avevo paura
di toccarla, come se le sue ossa potessero andare in pezzi, mi
sentivo stupida a parlare, sapendo che non potevano esserci
risposte. Ma mi ero accorta, subito, che le risposte c’erano, bastava
cercarle: nonostante fosse completamente paralizzata, i suoi occhi
esprimevano tutto il dolore e il piacere del mondo, se riuscivi a
leggerci dentro.
Quegli occhi diventarono, ben presto, lo specchio delle mie
emozioni, dei miei sentimenti, e nei pomeriggi che trascorrevo a
casa sua mi sentivo messa a nudo da quello sguardo, di fronte a me
stessa come non era mai successo.
Lia era la personificazione di tutto ciò che è handicap: impotenza,
vuoto, frustrazione di ore, esaltazione di un minuto.
La madre, quella dal corpo snello e dai capelli lunghi, era
incredibile: seguiva la figlia con dedizione inesauribile, pronta a
spiare ogni cambiamento, pronta a combattere, per quella figlia che,
senza volerlo, le aveva cambiato l’esistenza.
Questa è una storia che non posso raccontare perché Lia non c’è
più, ma nel vuoto che ha lasciato ho trovato una strada da
percorrere: la mia.
Da domani
Stava lì, con le analisi in mano, e il cuore sembrava esploderle in
petto: era incinta, finalmente, quanto aveva atteso quel momento!
Per un attimo fu attraversata da un brivido di paura, chissà perché,
ma subito dopo una gioia incontenibile la invase. Gloria: si sarebbe
chiamata così la bambina, perché sarebbe stata femmina, ne era
certa. Riusciva anche a immaginarsela: bionda, come lei, gli occhi
azzurri del padre, e intelligente, molto, e avrebbero giocato e corso e
riso, e sarebbe stata la più bella di tutte, la sua bambina.
I nove mesi della gravidanza erano stati un soffio: aveva sofferto i
soliti disturbi delle altre, nausea, gonfiori, ma tutto ciò non aveva
intaccato i suoi ritmi di vita. Al mattino, quando usciva per andare al
lavoro, provava una grande fierezza nell’esibire il pancione: la gente
le sorrideva e il mondo aveva colori diversi. Era recettiva a suoni e
rumori che la stordivano come mai le era accaduto.
Felice.
All’ospedale era arrivata quando già le acque si erano rotte e fitte
atroci le squassavano il ventre.
Si contorceva dal dolore, era dolore, dolore all’ennesima potenza,
che nessuno le aveva spiegato, che nessun rilassamento avrebbe
placato.
A un certo punto pensava di morire, straziata dalle carni doloranti, e
non le importava più nulla, voleva solo che tutto finisse – possibile
che per tutte fosse così? – e non si era accorta che stava scivolando
nel torpore dell’anestesia perché all’ultimo, dopo mille «Andrà tutto
bene, stia tranquilla», era stato necessario il cesareo.
Si era svegliata con la bocca amara, senza ricordare, all’inizio, ma
poi era riuscita a mettere a fuoco i fiocchi rosa, il soffitto e i letti, e
aveva pensato che era ora di vederla, la bambina che le avevano
strappato di dosso.
Accanto a lei non c’era nessuno, a fatica aveva alzato il capo
cercando qualche volto conosciuto nell’andirivieni di persone nella
stanza.
Aveva suonato il campanello accanto al letto e chiesto di Luigi,
mentre occhi curiosi si posavano su di lei: l’infermiera le aveva detto
che stava parlando con i dottori insieme a sua madre.
Il vuoto, dentro, e le lacrime: non è così che deve essere, non è
così che ci si sente, a essere madri.
L’angoscia le salì addosso come un fiume in piena e, quando
finalmente i suoi occhi incrociarono quelli di Luigi, ebbe conferma di
tutto ciò che non aveva osato immaginare.
Non può essere vero, Dio fa che non sia vero, tutto è andato bene,
urlavano i suoi pensieri mentre stringeva il lenzuolo.
I
giorni seguenti avevano assunto un andamento convulso:
dovevano fare degli accertamenti alla bambina, avevano detto, e
non la poteva vedere che per pochi minuti al giorno, tra i fili
dell’incubatrice, ma un cane, dico un cane che spiegasse che cosa
stava succedendo a lei che non aveva neanche la forza di chiedere,
non c’era.
Pensano che devi capire da solo, quando ci sono cose brutte da
capire, oppure pensano che non puoi capire, per cui è inutile
spiegare, e invece hai capito tutto, non c’è bisogno che parlino per
dirtelo, ma per consolarti, almeno.
Sua figlia è ritardata, le aveva detto il dottore mentre
l’accompagnava a vedere la bambina, ed erano crollati tutti i sogni, e
gli occhi azzurri e le corse sulla spiaggia, e il cuore si era fatto
piccolo che quasi non lo sentiva più.
Guardava la bambina come se tutto quello che avveniva
riguardasse un’estranea, non lei; ma Luigi dov’era, che aveva
bisogno di vederlo per avere un appiglio alla vita che continuava, al
tempo che sgranava il suo rosario, nonostante tutto?
Avrebbe voluto cancellare tutto e ricominciare, ma soprattutto
avrebbe voluto non sapere cosa l’attendeva e così poter sperare,
immaginare.
Ma ricominciare non era possibile e l’irreversibilità della situazione
la spingeva a fare i conti con il suo fallimento: non era riuscita in ciò
che tutte le donne riescono a fare con naturalezza: un figlio. Chissà
cosa c’era di sbagliato, in lei, per meritare un castigo coì grande.
Ogni mattina, guardando le pareti della sua stanza si chiedeva
come mai fosse spuntato un nuovo giorno, se dentro era notte
fonda: la vita continuava, come sempre, era inconcepibile eppure
era così, c’erano piatti da lavare, cibi da cucinare, pavimenti da
pulire, persone da ascoltare, ma tutto era come sfocato, estraneo.
Gloria – che nome infelice per una sconfitta – esisteva, e non
poteva dimenticarsene, almeno lei, che era la madre, perché gli altri
dopo i primi giorni si erano defilati, impietriti da un’idea, non certo da
quel fagotto rosa, che strillava giorno e notte.
Non l’aveva mai guardata, sua figlia, da quando era tornata
dall’ospedale, e dopo aver preso l’ennesimo caffè decise che era
arrivato il momento di farlo.
La prese in braccio e i suoi occhi liquidi le attraversarono il cuore:
cercava, in quel viso roseo, un segno, almeno uno, della diversità,
dell’handicap, ma non vedeva nulla di strano in quelle mani, in quelle
gambette esili, in quella bocca.
Le difficoltà sarebbero emerse con il tempo, ma adesso in quel
momento non c’era nulla di diverso: una madre e una figlia come
tante altre, catapultate in un’ora qualunque del pomeriggio
qualunque, di una casa qualunque…
Sollevò lo sguardo, oltre la culla, oltre la finestra e chiuse gli occhi:
andare avanti sarebbe stato graffiare a ogni giorno una parte di vita,
perché se qualcuno dipende totalmente da te non c’è più vita.
Sarebbe stato guardare i medici sperando ogni volta in qualcosa di
nuovo ed essere delusi perché quello che è non cambia.
Sarebbe stato combattere per ogni cosa, anche la più piccola,
anche la più banale, perché nulla è banale se si vive sospesi.
Sarebbe stato essere soli, perché nessuno si fa carico del dolore.
Sarebbe stato affrontare ogni volta le istituzioni e pretendere ciò
che è un diritto, che invece viene fatto passare come un favore.
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