Dal punto di vista comunista – Trentacinque interventi inattuali – Slavoj Žižek

SINTESI DEL LIBRO:
Il
fatto che la rilevanza dell’opera di Marx perduri nell’epoca del
capitalismo globale andrebbe affrontato in modo prettamente
dialettico: non soltanto la critica dell’economia politica e le dinamiche
capitalistiche delineate da Marx sono ancora del tutto attuali; ci si
dovrebbe spingere oltre e affermare che è soltanto con il capitalismo
globale odierno che, come direbbe Hegel, la realtà ha raggiunto il
suo concetto. Pure, a questo punto, interviene un’inversione
propriamente dialettica: è proprio nel momento in cui si compie
pienamente la realtà che il limite deve apparire, il momento del
trionfo è quello della sconfitta; superati gli ostacoli esterni, una nuova
minaccia proviene dall’interno, segnalando l’incoerenza immanente.
Quando la realtà perviene al suo concetto, questo stesso concetto
deve essere trasformato. Ecco in cosa risiede il paradosso
propriamente dialettico: non che Marx avesse sempre torto, anzi,
aveva spesso ragione, ma in un senso molto più letterale di quanto
lui stesso potesse aspettarsi.
Ad esempio, non avrebbe certo immaginato che la dinamica
capitalistica della dissoluzione di ogni identità particolare avrebbe
intaccato persino l’identità etnica e sessuale: «la unilateralità e la
ristrettezza» sessuali «diventano sempre più impossibili»,
1 e,
quanto alle pratiche sessuali, «tutto ciò che vi era di stabilito e di
rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa viene
sconsacrata»,
2 sicché il capitalismo tende a rimpiazzare
l’eterosessualità convenzionale normativa con un proliferare di
instabili identità e/o orientamenti in mutamento. L’esaltazione attuale
delle «minoranze» e dei «marginali» è l’atteggiamento prevalente
della maggioranza – persino la Alt-right che lamenta l’ossessione
della sinistra moderata per il politicamente corretto si propone come
nume tutelare di una minoranza in via d’estinzione. Oppure si
prendano quanti, criticando il patriarcato, vi si scagliano contro come
se conservasse ancora una posizione egemonica, ignari di quanto
scrissero Marx ed Engels più di centocinquant’anni fa nel primo
capitolo del Manifesto del Partito comunista: «Dove è giunta al
potere, essa [la borghesia] ha distrutto tutte le condizioni di vita
feudali, patriarcali, idilliache».
3 Che ne è dei valori patriarcali della
famiglia quando un bambino può denunciare i genitori per incuria e
abusi, quando, insomma, la famiglia e lo statuto di genitori sono
ridotti de iure a un contratto temporaneo e rescindibile tra individui
indipendenti?
Come opera l’ideologia in condizioni del genere? Ricordiamo la
classica barzelletta dell’uomo che crede di essere un chicco di grano
e viene portato in un istituto psichiatrico dove i dottori si adoperano a
curarlo finché lo convincono di non essere un chicco ma un uomo.
Una volta guarito (ormai convinto di non essere un chicco di grano,
ma un uomo) e ottenuto il permesso di lasciare l’ospedale, il
paziente esce ma tremebondo torna indietro di corsa; teme che
possa mangiarlo un pollo che ha incontrato fuori dalla porta. «Mio
caro» gli dice il dottore, «lei sa benissimo di non essere un chicco di
grano ma un uomo». «Certo che lo so» risponde il paziente, «ma lo
saprà anche il pollo?» La stessa identica cosa vale per la teoria
marxiana del feticismo delle merci, oggi persino più attuale di quanto
lo fosse al tempo di Marx. Il «feticismo delle merci» è un’illusione
che opera nel cuore stesso del processo di produzione reale. Si noti
l’incipit del sotto-capitolo sul feticismo delle merci nel Capitale: «A
primo aspetto, una merce pare una cosa triviale, normale. Dalla sua
analisi risulta che è una cosa intricatissima, ricca di sfumature
metafisiche e di arguzie teologiche».
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Marx non afferma, alla solita maniera «marxista», che l’analisi
critica dovrebbe dimostrare come la merce – quel che appare come
una misteriosa entità teologica – scaturisca dal processo «ordinario»
della vita reale. Al contrario, il compito dell’analisi critica
consisterebbe nel riportare alla luce le «sfumature metafisiche e […]
arguzie teologiche» in quello che sembra, a prima vista, solo un
oggetto comune. Il feticismo delle merci (la convinzione che le merci
siano oggetti magici, dotati di poteri metafisici intrinseci) non si trova
nella nostra mente, nel modo in cui percepiamo (male) la realtà, ma
nella stessa realtà sociale. Possiamo pure conoscere la verità, ma
agiamo come se non la conoscessimo – nella vita reale, ci
comportiamo come il pollo della barzelletta.
Niels Bohr, che seppe rispondere a tono alla frase di Einstein «Dio
non gioca a dadi» («Non dire a Dio cosa fare!»), ci fornisce anche un
esempio calzante di come la negazione feticista della credenza operi
nell’ideologia: dopo aver notato un ferro di cavallo appeso alla porta
di Bohr, con aria sorpresa un suo conoscente in visita gli disse che
non credeva portasse fortuna, come voleva la superstizione, al che
Bohr ribatté: «Nemmeno io ci credo; lo tengo lì perché mi hanno
detto che funziona lo stesso, anche se non ci si crede!» È così che
opera l’ideologia nella nostra epoca di cinismo: non è necessario
crederci. È così che funziona l’ideologia oggi: nessuno prende sul
serio la democrazia o la giustizia, siamo tutti consapevoli del fatto
che sono corrotte, ma le «esercitiamo» – ovvero, mostriamo di
credervi – supponendo che funzionino anche se non ci crediamo.
Sarà forse questo il motivo per cui la «cultura» si sta imponendo
come principale categoria di mondo della vita. Per quanto concerne
la religione, non «crediamo davvero» più, ci limitiamo a osservare
(alcuni) rituali religiosi e precetti come forma di riguardo verso lo
«stile di vita» della comunità d’appartenenza (gli ebrei non credenti
obbediscono alle norme kosher «in ossequio alla tradizione»). «Mica
ci credo veramente, è solo che fa parte della mia cultura» sembra
essere il modo predominante in cui si manifesta la credenza
dislocata, spostata, propria del nostro tempo. «Cultura», così
chiamiamo i precetti che osserviamo senza un’adesione convinta,
senza prenderli molto sul serio. È per questo motivo che liquidiamo i
credenti fondamentalisti come «barbari», anti-culturali, quasi
minacciassero la cultura – osano prendere sul serio il loro credo.
L’epoca di cinismo in cui viviamo non riserverebbe nulla di
sorprendente per Marx.
Allora, le teorie marxiane non sono semplicemente vive: Marx è un
morto vivente il cui spettro continua a tormentarci – e l’unico modo
per tenerlo in vita è dedicarsi a quelle, tra le sue intuizioni, che
appaiono oggi più vere di quanto non lo fossero alla sua epoca,
anzitutto l’appello all’universalità della lotta per l’emancipazione.
L’universalità da difendere oggi non è una forma di umanesimo,
coincide piuttosto con l’universalità della lotta (di classe): più che
mai, bisogna opporre al capitale globale una resistenza globale. Si
dovrebbe allora insistere sulla differenza tra lotta di classe e altri tipi
di
lotta (antirazzista, femminista ecc.) che ambiscono alla
coesistenza pacifica di gruppi diversi e la cui massima espressione è
la politica dell’identità. La lotta di classe non prevede una politica
dell’identità: la classe avversaria deve essere distrutta, e noi stessi
dovremmo, in questa stessa mossa, sparire come classe. La
migliore definizione breve del fascismo è: l’estensione della politica
dell’identità all’ambito della lotta di classe. L’idea su cui si fonda il
fascismo è quella dell’ordine di classe: ogni classe dovrebbe essere
riconosciuta per la propria specifica identità e, in tal modo, la sua
dignità verrebbe preservata ed evitato l’antagonismo tra le classi.
L’antagonismo di classe è qui trattato alla stessa stregua della
tensione fra razze diverse: le classi sono accettate come fatti della
vita pressoché naturali, non sono viste come qualcosa da lasciarsi
alle spalle.
La condizione di morto vivente di Marx richiede uno sguardo
critico sull’eredità marxista – non dovrebbero esserci vacche sacre.
A questo riguardo, basteranno due esempi collegati tra loro.
Secondo il classico dogma marxista, il passaggio dal capitalismo al
comunismo avverrà in due fasi, quella «più bassa» e quella «più
elevata». In quella più bassa (talvolta chiamata «socialismo»), la
legge del valore resterà valida:
Perciò il produttore singolo riceve – dopo le detrazioni – esattamente ciò che dà. Ciò che
egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro. Per esempio: la giornata di
lavoro sociale consta della somma delle ore di lavoro individuale; il tempo di lavoro
individuale del singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale conferita da
lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro sociale. Egli riceve dalla società uno
scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo
lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi
di consumo quanto equivale a un lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che
egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra. […] In una fase più elevata
della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui
alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale;
dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della
vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze
produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza,
solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può
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scrivere sulle sue bandiere: – Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi
bisogni!
La classica critica mossa a questa distinzione è che, mentre la
«prima fase» può in qualche modo essere immaginata e governata,
quella «più elevata» (il comunismo compiuto) rappresenta un’utopia
pericolosa. Tale critica sembra giustificata dal fatto che i regimi del
socialismo reale rimasero intrappolati in dibattiti interminabili per
stabilire a che stadio si trovassero, introducendo suddivisioni; ad
esempio, a un certo punto, in epoca tardo-sovietica, prevalse
l’opinione di trovarsi già al di sopra del mero «socialismo», sebbene
non si fosse ancora nel pieno «comunismo» – si trovavano allo
«stadio più basso dello stadio più alto». Ma ecco la sorpresa: molti
Paesi socialisti ebbero la tentazione di saltare oltre lo «stadio più
basso» e proclamare che, nonostante (o, a un livello più profondo,
proprio grazie a) la povertà materiale, si potesse approdare
direttamente al comunismo. Durante il Grande balzo in avanti, alla
fine degli anni Cinquanta, i comunisti cinesi stabilirono che la Cina
dovesse scavalcare il socialismo per passare direttamente al
comunismo. Si riferivano alla famosa massima di Marx: «Ognuno
secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!» L’insidia
si
celava nell’interpretazione che del motto veniva data per
legittimare la militarizzazione totale della vita nelle comuni agricole: il
quadro del Partito che comanda una comune sa cosa sa fare ogni
contadino, quindi fissa un programma e indica con precisione gli
obblighi di ciascuno sulla base delle rispettive capacità; sa anche di
cosa hanno davvero bisogno i contadini per sopravvivere, e in
considerazione di queste esigenze organizza la distribuzione del
cibo e di altre provviste essenziali. La condizione di estrema povertà
militarizzata
diviene
così
l’attuazione
del
comunismo, e,
naturalmente, non è sufficiente sostenere che una tale lettura travisi
un’idea nobile – andrebbe notato piuttosto come resti latente
nell’ambito delle possibilità. Il paradosso allora è che cominciamo
con la povertà condivisa del «comunismo di guerra», poi, quando le
cose vanno meglio, progrediamo/regrediamo al «socialismo» in cui
idealmente, è chiaro, ognuno è pagato secondo il proprio contributo,
e… e, alla fine, ritorniamo al capitalismo (come nella Cina di oggi),
confermando così il vecchio detto per cui il comunismo è una via
tortuosa nel passaggio dal capitalismo al capitalismo. Tali difficoltà
attestano che la vera utopia coincide con la «prima fase» in cui la
legge del valore è ancora valida, ma in un modo «giusto», sicché
ciascun lavoratore ottiene quanto gli spetta – il sogno impossibile di
uno scambio sociale «giusto» che vede il feticcio del denaro
sostituito da semplici scontrini non feticizzati. E oggi ci troviamo in un
momento simile: la minaccia di apocalissi incombenti (ecologica,
digitale, sociale) ci obbliga ad abbandonare il sogno socialista di un
capitalismo «giusto» e a escogitare misure «comuniste» più radicali.
Allora, come dovremmo prefigurare il comunismo? Nel terzo libro
del Capitale, Marx rinunciò alla visione utopica iniziale secondo cui
con il comunismo sarebbe venuta meno l’opposizione tra necessità e
libertà, tra necessità e lavoro, e asserì che, in ogni società, si
sarebbe protratta la distinzione fra il regno della necessità (Reich der
Notwendigkeit) e il regno della libertà (Reich der Freiheit); il regno
delle attività libere e ricreative avrebbe sempre dovuto poggiare sul
regno del lavoro necessario alla riproduzione continua della società:
In pratica il regno della libertà inizia solo laddove termina il lavoro comandato dalla
necessità e dalla finalità estrinseca; per questo si trova al di fuori della sfera della
produzione materiale propriamente detta. Come il selvaggio è costretto a lottare con la
natura per soddisfare le proprie necessità, per conservare e riprodurre la propria
esistenza, così anche deve fare l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società
e in tutti i modi di produzione che possono esservi. Sviluppandosi egli sempre di più, si
allarga la sfera delle necessità naturali, in quanto aumentano i suoi bisogni, ma
contemporaneamente aumentano le forze produttive atte a soddisfare tali bisogni. La
libertà in questa sfera può consistere solo in ciò, che l’uomo socializzato, vale a dire i
produttori associati, regolano in maniera razionale questo loro ricambio organico con la
natura, lo controllano in comune invece di essere dominati da esso come da una forza
cieca; che essi svolgono la loro funzione con lo spreco quanto più basso di energia e
nelle condizioni più adatte alla loro natura umana e ad essa più conformi. Questo tuttavia
resta pur sempre una sfera delle necessità. Al di fuori di essa inizia lo sviluppo delle
facoltà umane, che è fine a sé stesso, la reale sfera della libertà, che può sorgere tuttavia
solo fondandosi su quella sfera delle necessità. Condizione preliminare di tutto questo è
la riduzione della giornata lavorativa.
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Occorre respingere quest’argomentazione; a renderla sospetta è
proprio il carattere di ovvietà tipico del buonsenso. Dovremmo
arrischiarci a ribaltare la relazione fra i due regni: è soltanto
mediante la disciplina del lavoro che possiamo riconquistare la vera
libertà, mentre come consumatori impulsivi restiamo in balia della
necessità dettata dalle inclinazioni naturali. Le parole scellerate
poste all’ingresso di Auschwitz, «Arbeit macht frei», sono vere quindi– e non significa che ci avviciniamo al nazismo, ma solo che i nazisti
si appropriarono di questo adagio con ironia crudele.
Oggi, essere comunisti significa non temere di trarre conclusioni
radicali di questo tipo, anche in riferimento a una delle affermazioni
più spinose della teoria marxista, l’idea dell’«estinzione» del potere
statale.
Abbiamo bisogno dei governi? È una domanda
profondamente ambigua. Può essere letta come una propaggine
dell’idea della sinistra radicale secondo cui il governo (il potere dello
Stato) è in sé una forma di alienazione o oppressione e dovremmo
adoperarci per abolirlo e costruire una società retta da una qualche
sorta di democrazia diretta. Oppure è possibile darne una lettura
progressista più moderata: nella società attuale così complessa
servirebbe un ente deputato alla regolamentazione, ma andrebbe
tenuto sotto stretto controllo, di modo che tuteli gli interessi di quanti
abbiano dato il proprio voto (se non investito denaro) per questo.
Tutte e due le visioni sono pericolosamente sbagliate.
Quanto all’idea di un’organizzazione auto-trasparente della società
che prevenga l’«alienazione» politica (apparati statali, norme
istituzionalizzate della vita politica, ordinamento giuridico, polizia
ecc.), l’esperienza fondamentale della fine del socialismo reale non è
forse proprio l’accettazione rassegnata del fatto che la società è una
rete complessa di «sottosistemi»? E, per questa ragione, un certo
grado di alienazione è costitutivo della vita sociale, sicché una
società completamente auto-trasparente è un’utopia dal potenziale
totalitario.
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