Back – Un bacio alla luce del sole – Tania Paxia

SINTESI DEL LIBRO:
Oh avanti, apri questa porta», Jay era impaziente. Lo potevo
capire dall’espressione furbetta e al tempo stesso euforica. Aveva il
sorriso stampato in faccia da quando era sbucato al Rock Bottom e
mi aveva chiesto un caffè da portare via, con un “grazie” finale che
racchiudeva tutta la sua galanteria tenuta nascosta al mondo ma
non a me. «Non può essere così terribile».
Oh sì che lo era. Quell’appartamento poteva essere grande sì e no
come l’atrio di casa sua a New York. Non ci avevo pensato per tutta
la giornata perché ero stata impegnata con il lavoro e con qualche
chiacchiera scambiata con lui nei momenti di calma; tuttavia, dopo
che eravamo usciti dall’ascensore per raggiungere il mio
appartamento avevo iniziato a fare i conti con la realtà: quella casa
era il mio rifugio. Un rifugio, fatto per me, arredato alla buona, per
viverci da sola senza intrusione alcuna. In poche parole
quell’ambiente era una sorta di spazio in cui avevo racchiuso i miei
segreti. Assolutamente in disordine, tra l’altro. Mica potevo
immaginare che quel gran figo di Jayden Maynard potesse trovarmi
e raggiungermi a Chicago, per poi seguirmi fino al decimo piano di
quel condominio nel quartiere Near North Side non lontano da
Seward Park.
«Sicuro di non voler andare in albergo?», ero stanca e avevo
bisogno di un letto. Avevo solo un materassino gonfiabile a una
piazza e non avevo alcuna intenzione di dividerlo con lui perché
l’indomani mi sarei svegliata più dolorante del solito. No, non era
vero. Non vedevo l’ora di condividere un letto con lui, ma mi
vergognavo da morire a mostrargli in che condizioni vivevo. Ecco
qual era il problema. «Te l’ho detto: ho solo un materasso piccolo
piccolo…». Ero disperata.
«Ci stringiamo», replicò con la sua voce vellutata. Mi era mancato
da morire sia lui che quella sua faccia da schiaffi. Si avvicinò
pericolosamente poggiandomi una mano sul fianco da sopra al
cappottino rosso che indossavo. «Abbiamo tanto tempo da
recuperare in queste due settimane in incognito che sono riuscito a
ritagliarmi», volevo proprio vedere quanto sarebbe passato prima
che qualcuno ci scoprisse. Jayden Maynard in incognito era
impossibile da immaginare, ma lui sosteneva che sarebbe stato un
gioco da ragazzi e si sarebbe divertito a depistare i paparazzi e la
stampa come avevo già fatto io con le foto pubblicate dalla mia
amica Jude su Instagram. Ero dubbiosa, ma dovevo pur dargli un
briciolo di fiducia.
Avevo ancora una carta da giocare e se andava come speravo, là
dentro, Jay, non ci avrebbe più voluto dormire.
«Fa freddissimo, il riscaldamento funziona a intermittenza e, bada
bene a quello che sto per dirti, l’acqua arriva gelida direttamente dal
lago, secondo me», parlai a raffica e lui emise una risata
incontrollabile.
«Se sei sopravvissuta fino a ora, non vedo perché non possa farlo
anche io», mi strizzò un occhio con fare complice. Perché avevo la
netta sensazione che qualunque cosa gli avessi detto, lui avrebbe
trovato nell’immediato una soluzione a ogni genere di problema?
Strinsi le labbra, pensierosa. Eppure doveva esserci qualcosa che a
lui
dava fastidio. “Spremi le meningi, Frankie”, mi ritrovai
mentalmente a pensare. E poi l’illuminazione. «Scarafaggi!», gli urlai
in faccia. «Ci sono gli scarafaggi. Sì», annuì in fretta. «Ovunque. Sul
pavimento», storsi le labbra in una smorfia disgustata. «Nella doccia!
Per non parlare dei ragni sul soffitto. Bleah», gli mostrai la lingua.
Strizzò i suoi occhioni da cucciolo, scuri, infiniti e da perdercisi
dentro. «Questo potrebbe essere un problema», ah! Vittoria! Ero già
pronta a scoccargli un bacio, salutarlo sul pianerottolo e intrufolarmi
nel mio appartamento – da sola – mentre lui si prendeva una stanza
in qualche hotel extralusso concedendomi così il tempo di rassettare
l’appartamento per l’indomani. Il che voleva dire dormire separati…
mmh.
«Ma non per me. Ho il quarantasette di piede. Con una scarpata ci
rimangono secchi». Niente. Non c’era verso. «Da stasera ti proteggo
io». Ci mancava che aggiungesse “Principessa” alla fine della frase
e gli avrei dato una pacca sulla spalla per dirgli: «Non ti preoccupare
che faccio da me». Tra me e lui, la principessa non ero di certo io. Io
ero il cavaliere senza macchia e senza paura. Ora che avevo fatto
pace con la musica e ritrovato il piacere di suonare la chitarra – la
mia armatura – potevo proteggermi anche da sola.
Però mi soffermai ad analizzare un altro piccolissimo particolare.
«Quarantasette, hai detto?», spalancai gli occhi. «Hai dei piedi
enormi», sbattei le palpebre incredula. Incredula non solo perché li
aveva così grandi, ma perché non ci avevo mai fatto caso prima
d’ora.
«E non solo quelli», arricciò le labbra preparandosi al doppio senso,
«sono enormi». Ed eccoloooo! L’ho già detto quanto mi era
mancato? Sì? Vabbè, lo ridico. Quanto mi era mancato!
Le provai di tutte per non scoppiare a ridere, anche trattenendo il
fiato, ma alla fine ebbi un vero e proprio attacco di ridarella.
Alzò gli occhi puntandoli sul soffitto, fingendosi scocciato anche se
in realtà faticava a rimanere serio. «Sempre a pensare male».
«Be’, perdonami», ridacchiai, «ma non è che tu abbia questa gran
reputazione».
«Ah-ah. Parlavo delle mie mani», sventolò quelle due padelle
agitando le dita. «Malfidata, come sempre».
Velai la mia allegria dietro le mie di mani, che al contrario delle sue,
non erano enormi, ma grandi abbastanza per coprirmi fino agli occhi.
Purtroppo le spalle che sussultavano e gli acuti e i versetti per
riprendere fiato tra una risatina e l’altra non potei proprio
nasconderli. «Mi fai troppo ridere».
«Meno male. Perché non è mia intenzione farti piangere», mi
avvolse i polsi con delicatezza per allontanarmi le mani dal viso.
«Però si è fatto tardi e avrei giusto un po’ di fame».
«Ma se al Rock Bottom ti sei spazzolato un triplo cheeseburger con
patatine!», hmm mi era venuta in mente un’altra idea. Tutto pur di
non aprire quella porta. «Andiamo a cena fuori!», esclamai
entusiasta. «Conosco una pizzeria dove possiamo passare
inosservati».
«Non parlavo di quel tipo di fame», mi lanciò uno sguardo da gran
conquistatore. «Ti ho raccontato di quando sono arrivato a New York
per cercarti?», fece schioccare la lingua. «Ho bussato non so quante
volte alla tua porta ed ero tentato di sfondarla pur di vederti. Ma»,
tentennò, «sono sceso e ho preso le chiavi di riserva dal portiere.
Stavolta potrei non avere quella stessa ragionevolezza», accennò un
sorrisetto. «Per cui», scrollò le spalle larghe smuovendo il
pesantissimo borsone che portava a tracolla, «apri. Quella. Porta».
Aggiunse: «Per favore».
Presi un lungo respiro per prendermi ancora del tempo. Ma tanto
era inutile: da lì non si schiodava. «Prometti di non prendermi in
giro», gli puntai contro l’indice, «dopo aver visto l’appartamento».
Si batté la mano sul petto. «Giuro su tutto quello che vuoi».
«Sulle tue chitarre. Giura», lo obbligai.
«Giuro sulle mie chitarre. Che possano prendere fuoco in questo
momento se dico una bugia», dopo quel momento solenne, gli
spuntò di nuovo un ghigno sadico. «Tanto sono assicurate».
«Non vale», mi imbronciai.
«Frankie?», alzò un sopracciglio e mi indicò la porta con un cenno
del capo.
E alla fine il momento fatidico era arrivato. «Va bene, va bene»,
cercai le chiavi nelle tasche del cappotto, ma non le trovai. Forse
potevo sfruttare quel fatto a mio favore, dopotutto. «Non trovo le
chiavi», annunciai mascherando la mia soddisfazione.
«Spero tu stia scherzando», si piegò su di me, scocciato da quel
mio ennesimo tentativo di sabotaggio dei suoi piani per la serata.
«No», aprii la cerniera della borsa e rovistai dentro alla meglio.
C’era di tutto là dentro, per cui era impossibile che vedesse le chiavi
infilate nella tasca interna.
«Okay, tu passa pure la serata a cercarle, io intanto sfondo la
porta», fece un passo indietro e si premette un braccio contro il petto
pronto per assestare una bella spallata alla porta, difettosa per
giunta. Avrei dovuto avvertirlo che non ce l’avrebbe fatta nemmeno
con un ariete della SWAT oppure no? Sarebbe potuta essere la giusta
punizione per il suo quasi tradimento con una delle sue vecchie
“conoscenze” di Hartford. Indietreggiò per darsi lo slancio, ma alla
fine cedetti al buonsenso.
«Eccole!», tirai fuori il mazzo di chiavi tintinnante da vera
trionfatrice. «Le ho trovate», Jay scrollò le spalle per darsi un
contegno e tornare a guardarmi dall’alto del suo metro e ottanta.
Mi fece segno di precederlo con un mezzo inchino. Visto che avevo
proprio esaurito le scuse, gli passai davanti e infilai la chiave più
grande nella toppa. La girai una, due, tre volte e feci scattare la
serratura che, ovviamente, arrugginita com’era non si degnò di
collaborare e fui costretta a forzarla comunque con un paio di spinte.
Alla fine caddi in avanti e rischiai di schiantarmi al suolo, ma riuscii a
mantenere l’equilibrio grazie a Jayden che mi afferrò per il cappotto.
«Roba semplice, tu e io, mai», mica era colpa mia se in quel
condominio era tutto rotto. Tranne l’ascensore che, nonostante dei
sinistri scricchiolii, sembrava sopravvivere.
L’appartamento era cupo e immerso nell’oscurità, eccetto per quel
cono di luce sul pavimento che si propagava dal corridoio attraverso
la porta aperta. Avevo provato a profumare l’aria con deodoranti vari,
ma si sentiva ancora l’odore forte di umido delle infiltrazioni di acqua
piovana: sperai che il profumo agli agrumi e speziato di Jayden
facesse il miracolo di spazzarlo via. «Okay, accendo la luce. Ma
ricordati che hai promesso», premetti l’interruttore sulla parete
accanto all’ingresso e il mio accampamento si illuminò grazie alla
luce fioca proveniente dalla lampadina – priva di lampadario – del
soggiorno che io usavo come “giaciglio” per la notte. Faceva più
freddo lì che fuori, quindi dedussi che il riscaldamento non
funzionasse. Ma con Jayden, quel giorno, avevo esaurito la mia
dose quotidiana di gioie. Non si poteva avere tutto dalla vita: o si
otteneva un fidanzato figo o il riscaldamento funzionante.
«Tadaaaan!», aprì le braccia come un mago che aveva appena
finito il suo spettacolo di magia. «La mia umile dimora», ironizzai.
Siccome ero voltata di spalle non capivo se il suo silenzio fosse
dovuto a una sua volontà di una fuga imminente o allo sbigottimento
di ritrovarsi in una topaia del genere. «Sei sempre qui?», mi girai per
accertarmene e mi ritrovai a guardare la sua espressione allibita.
«Te l’avevo detto che era tremendo».
Jay aprì e richiuse la bocca più di una volta, come se proprio non
riuscisse a recuperare l’uso della parola. «Be’», si guardò attorno
come stesse ammirando una mostra d’arte di dubbio gusto.
«Diciamo che ho visto di peggio», potevo immaginare, sì, come no.
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