Armenia – Gilbert Sinoué

SINTESI DEL LIBRO:
Costantinopoli, quartiere di Karakoy, 26 agosto 1896, 12.30
Vi fu una prima deflagrazione.
Uno stormo di piccioni si alzò verso il cielo.
Una delle sentinelle di guardia davanti all’entrata della Banca Imperiale
Ottomana guardò stupita il suo collega. «Hai sentito?»
L’altro indicò col fucile in direzione di Galata, oltre i tetti color zafferano.
«Sembrerebbe…»
Il resto della frase fu coperto da una seconda esplosione.
«Bissm Illah! Che sta succedendo? Sembra che stiano bombardando la
città!»
L’uomo non poteva sapere che nello stesso momento alcuni insorti stavano
cercando di far saltare in aria il palazzo di Yildiz, dove risiedeva il sultano
Abdul Hamid II, mentre altri avevano preso posizione alla testa del ponte che
collegava Galata a Costantinopoli, e tempestavano di proiettili il corpo di
guardia situato di fronte.
Le sentinelle imbracciarono il fucile, ma dov’era il nemico?
Improvvisamente, una ventina di uomini armati, con un berretto in testa e
pantaloni a sbuffo, sboccarono all’angolo di via del Voivodato.
Un soldato urlò: «Alto là!»
La sentinella mirò a caso uno degli uomini; mentre premeva il grilletto,
ebbe appena il tempo di pensare che non doveva avere più di vent’anni.
Si sbagliava: ne aveva ventitré, si chiamava Bedros Parian, il suo nome di
battaglia era Papken Siuni.
Il colpo lo raggiunse in pieno petto ma, cosa stupefacente, Papken non
cadde. Il suo corpo esplose. La testa, come se fosse stata tagliata, rotolò per
qualche metro, e le membra si dispersero sul marciapiede.
Un altro aggressore venne colpito, poi un terzo e un quarto. Come il loro
compagno, non caddero a terra, ma i loro corpi saltarono in aria, ridotti in
brandelli. Poi, dalle terrazze che sporgevano sulla strada, un diluvio di fuoco
si abbatté sui soldati. Tornato il silenzio, i cadaveri dei militari ricoprivano il
suolo, mescolati a quelli di anonimi civili.
La via era libera. Gli assalitori si riversarono nella banca. La maggior parte
di loro portava una cintura di granate e candelotti di dinamite, il che spiegava
il modo orribile in cui alcuni erano morti.
Una donna gridò terrorizzata. I clienti, presi dal panico, si gettarono verso
l’uscita, ma vennero respinti col calcio del fucile.
Uno dei membri del commando, il più giovane, ordinò: «Seduti! Mani
sopra la testa!»
Aveva ventiquattro anni, si chiamava Karekin Pastermadjian, il suo nome
di battaglia era Armen Garo.
Mentre i suoi compagni si sparpagliavano per il salone, si rivolse a uno di
loro: «Hovanes, vieni con me!» E corse verso una scala di marmo.
Hovanes Tomassian lo seguì: ora che Papken era morto il capo era Armen,
come concordato.
In cima alla scala, si trovarono faccia a faccia con decine di impiegati che,
attirati dai colpi d’arma da fuoco, si erano precipitati fuori dai loro uffici.
«Non sparate!»
«Calmi, non abbiamo niente contro di voi. State indietro!»
Armen scrutò nel corridoio ricoperto di boiseries, che si apriva davanti a
loro.
«Che c’è a questo piano? E a quello sopra?»
Un ometto tutto sudato balbettò: «Gli uffici del direttore generale, del
governatore della banca, dei segretari e dei traduttori; al secondo piano c’è la
contabilità, all’ultimo gli archivi. Non c’è più nessuno».
«Nessuno? E allora dove sono i responsabili? Il direttore e il governatore?»
Nessuno rispose.
«Parlate!»
Qualcuno indicò due porte di quercia massiccia. «Là…»
«Benissimo! Tutti al piano terra. State calmi, vi ripeto che non avete niente
da temere».
Hovanes entrò nella prima stanza, che era vuota. Corse alla seconda, posò
la mano sulla maniglia, ma questa resistette. Senza esitare puntò il revolver
sulla serratura e sparò, facendola volare in frantumi. Con una spallata
spalancò il battente.
All’interno c’erano due uomini in atteggiamento imperturbabile. Il primo,
tracagnotto, sulla quarantina, aveva un volto infantile, ornato da baffi sottili.
Il secondo pareva solo un po’ più vecchio. Longilineo, dall’aspetto molto
serio, aveva la faccia scavata coperta da una lieve barba rosso chiara, col
pizzetto.
Armen gli si rivolse: «Chi siete?»
«Sir Edgar Vincent».
«Qual è la vostra funzione?»
«Sono il governatore della banca. Se state cercando le chiavi del caveau,
noi…»
«Silenzio!»
Armen indicò una poltrona posta davanti a una delle finestre aperte sul
Bosforo, e ordinò all’inglese di sedersi. Poi si rivolse all’altro: «E voi?»
«Gustave Auboyneau, direttore generale. Io sono francese. Il caveau non
è…»
In un francese impeccabile Garo replicò: «Ma per chi ci prendete? Per dei
ladri? Noi siamo dei fedais!»
Auboyneau spalancò gli occhi: «Fedais?»
«I sacrificati, combattenti armeni per la libertà».
Sir Edgar scosse il capo: degli armeni.
Avrebbe dovuto pensarci prima. Erano mesi che tra quella gente e le
autorità la tensione continuava a salire, specie dopo la tragica faccenda del
Sassun. Due anni prima, per la durata di ventidue giorni e su ordine del
sultano, alcuni villaggi armeni erano stati devastati dalle truppe ottomane.
Poiché, per l’ennesima volta, i sassuniti si erano opposti ai taglieggiamenti
dei vicini curdi, il sultano, Ombra di Allah sulla terra, aveva colto l’occasione
per saggiare la reazione dell’Occidente, che da un po’ di tempo lo infastidiva
con la “questione armena”. Si era parlato di contadini legati a un palo e
bruciati vivi, di donne incinte sventrate, di bambini squartati e di fanciulle
violentate dalla soldataglia prima di essere assassinate. Alcuni avanzavano la
cifra di mille morti, altri di tremila. Dove stava la verità? Pochi mesi dopo, tra
l’ottobre e il dicembre del 1895, c’era stato un vero e proprio scatenamento
del fanatismo popolare, sostenuto dall’esercito e vivamente incoraggiato dai
muezzin: quella volta, le vittime erano state più di duecentocinquantamila!
L’inglese si schiarì la voce.
«Il governo di Sua Maestà la regina Vittoria e quello francese hanno
sempre manifestato simpatia per la vostra causa… Voi…»
«Bugiardo!»
Armen Garo appoggiò la canna della pistola alla tempia del governatore.
«Non parlate della Francia, o dell’Inghilterra: di nessuno! Siete tutti dei
briganti!»
L’inglese protestò debolmente: «Sono desolato, ma la Gran Bretagna…»
«La Gran Bretagna?»
Fu Hovanes a intervenire, scandendo le parole: «La Gran Bretagna è la
peggiore di tutti! È più di un secolo che difendete l’integrità territoriale di
questo Impero malato! Avete forse dimenticato come Disraeli, il vostro primo
ministro, ci abbia venduti al Congresso di Berlino? Venduti in cambio di
un’isoletta! Probabilmente voi non ve lo ricordate più, ma i figli di Hayastan
non hanno dimenticato!»
Figli di Hayastan: così si facevano chiamare certi armeni, in ricordo di
Haik, loro leggendario antenato, pronipote di Noè, il patriarca biblico.
Sir Edgar abbassò lo sguardo. Nemmeno lui aveva dimenticato.
Il Congresso di Berlino al quale l’armeno aveva alluso era stato la
conclusione di una delle innumerevoli crisi che avevano scosso l’Impero,
sboccata nel 1878 in una guerra che aveva opposto gli eserciti dello zar
Alessandro II e quelli del sultano Abdul Hamid II, e conclusasi con la
sconfitta degli ottomani.
Ancor prima dell’inizio dei colloqui, gli incontri segreti tra Inghilterra e
Turchia erano sfociati in una “convenzione di alleanza difensiva”. I turchi
cedevano agli inglesi l’isola di Cipro, che controllava il sud-est delle coste
mediterranee, e in cambio i britannici si impegnavano a garantire il ritiro dei
russi dalle zone occupate, abbandonando d’un tratto le popolazioni armene al
loro destino: ora toccava alla Gran Bretagna la responsabilità di proteggerle.
Parallelamente, uno degli articoli stabiliva che il governo della Sublime
Porta1
si impegnava a realizzare, senza più alcun ritardo, i miglioramenti e le
riforme richiesti dalle necessità locali nelle province abitate dalle comunità
cristiane, e a garantirne la sicurezza. Solo che non una delle riforme promesse
era stata attuata: nel corso dei diciott’anni che erano seguiti, il sultano Abdul
Hamid II aveva continuato, in totale impunità, ad applicare la sua politica di
terrore nei confronti delle minoranze cristiane.
Diciott’anni durante i quali, se si eccettuano pochi strilli impotenti,
l’Europa non aveva mosso un dito, diciott’anni e centinaia di migliaia di
morti, ottantamila profughi in Transcaucasia e migliaia di bambini rimasti
orfani.
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