Amici Di Notte – Emiliano Di Meo

SINTESI DEL LIBRO:
Capisco subito quello che vuole da me, appena mette piede nel
locale. Non lo so spiegare neppure io, ma è così. Sono dietro
al bancone, impegnato a mettere a posto i panini e nel frattempo
prendo per il culo Francesco, il mio collega, perché uscendo dalla
cucina ha rovesciato a terra metà della pasta appena preparata dal
cuoco e quest’ultimo gli sta urlando dietro i peggiori improperi. Una
di quelle situazioni nelle quali dovresti evitare di ridere per non
peggiorare le cose, ma in cui non puoi trattenerti, nonostante gli
sforzi. Francesco ha l’aria mortificata e non riesco proprio a smettere
di sfotterlo e, per di più, l’oscenità delle cose che è in grado di
urlargli il cuoco, non fanno che alimentare la mia ilarità, come
benzina sul fuoco.
Il tipo entra quando il turno di Francesco è quasi finito, così come
doveva esserlo quello del personale in cucina, se il cuoco non fosse
stato costretto a rimettersi ai fornelli, e si siede. Il locale è quasi
deserto, d’altronde sono quasi le ventitré e, in genere, nelle ultime
due ore di turno rimango solo. Lavoro tutte le sere dalle sedici all’una
di notte, riposando solo il lunedì e un fine settimana al mese. Mi
sento ormai una creatura notturna.
«Salve, ben arrivato. Un attimo e siamo da lei.»
È Francesco ad accoglierlo, mentre sta ancora pulendo a terra e
l’uomo sorride cordiale, prima a lui, poi a me, annuendo con la testa.
Non sembra avere fretta.
«Prima di andare via, fammi un’ultima cortesia, prendi nota di
quello che vuole mangiare il signore e lasciami un foglietto qua, poi
vai tranquillo.» Mi rivolgo a Francesco e lui, consapevole del casino
che ha combinato, non obietta nulla.
Si avvicina al cliente con il proprio blocchetto, segna tutto, poi
torna da me. Mi lascia il foglio sul banco e si sporge oltre la cucina
per salutare il cuoco.
«Io vado, mi hai perdonato?» chiede.
«Portami tua sorella!» urla l’altro, in piedi davanti ai fornelli e
ancora spazientito, mentre Francesco sghignazza.
«Lascia stare, vedrai che domani gli sarà passata. Vai
tranquillo,» lo rassicuro, sbadigliando.
«Lo spero, che ci posso fare? Non l’ho fatto mica apposta, su
questo cazzo di pavimento si scivola in continuazione,» osserva,
come se dovesse giustificarsi con me, ma non ce n’è bisogno.
«Lo so, lo so. Non fare tardi che tanto gli straordinari non ce li
pagano. Vai a casa, ci vediamo domani.»
Francesco annuisce e si sfila il grembiule.
«Sì, non ne posso più, vado. Buona nottata, cerveza. Fa il
bravo.»
Mi saluta, poi esce dal locale.
Preparo il piatto per il cliente. Per fortuna ha chiesto tutte cose
fredde che abbiamo già pronte. Francesco deve averlo informato
che la cucina a quest’ora non prende ulteriori ordinazioni e l’uomo si
è accontentato di quello che c’era a disposizione.
Dispongo nel piatto tutte le verdure grigliate rimaste. Melanzane,
zucchine, peperoni e le ultime patate. Spacco a metà la pizza bianca
e la farcisco con due fette di formaggio. Sistemo tutto in maniera
gradevole, almeno per le mie possibilità, visto che non sono di certo
un artista, poi prendo dal frigo una bottiglietta di acqua gassata.
Posate e bicchiere sono già a tavola, così mi avvio.
«Prego, mi sembra ci sia tutto.»
Gli porgo il piatto e l’uomo sorride gentilmente, affatto spazientito
dall’attesa.
«Mi perdoni, ma è stata una serata un po’ particolare,» gli
confido.
Ha uno di quei volti che ti mettono subito a tuo agio.
«Nessun problema, non ho per niente fretta, né eccessivamente
fame. Sono passato qui un paio di volte e ho sempre pensato di
voler entrare, quindi l’ho fatto più per curiosità che per reale
appetito,» ammette iniziando a tagliare le verdure in piccoli pezzi con
coltello e forchetta.
La porta della cucina si apre e ne esce il cuoco.
«Ehi cerveza, ho preparato la pasta che quella testa di cazzo ha
rovesciato a terra, nel caso entrasse qualcuno di più affamato. In
genere, il sabato capita che entrino quei mezzi tossici del locale in
fondo e magari hanno voglia di mangiare qualcosa di più pesante.
Ora, però, me ne vado che domani mi tocca pure il turno a pranzo,»
mi informa, prima di tornare in cucina a togliersi il grembiule,
passando di nuovo, dopo un paio di minuti, per uscire dal locale.
In verità, a livello di affluenza, è particolarmente tranquilla come
nottata, dubito che entrerà qualcun altro.
Anzi, nel frattempo se ne vanno anche quei pochi clienti ancora
presenti e rimaniamo solo io e l’uomo che ho appena servito.
Il banco è pulito, la cucina ordinata, prima di chiudere devo solo
spazzare a terra e quadrare la cassa. Il resto è fatto.
Inizio a spazzare dietro il banco e, ogni tanto, io e l’unico uomo
ancora seduto a mangiare, ci lanciamo delle occhiate. Lui mastica
lento, non sembra ansioso di andare via, e io mi domando cosa ci
faccia in giro a quest’ora, per di più in questa zona. Non mi sembra
ci sia un granché di attraente per uno della sua età. Un paio di locali,
ma dalla clientela troppo giovane. Nessun teatro, forse un cinema,
ma, a parte questo, nient’altro. Non saprei dire con esattezza quanti
anni abbia, però è decisamente un uomo maturo.
«Perché non mi fai compagnia?» chiede e, in fondo, ho ancora
parecchio tempo per finire con le pulizie, quindi mi sembra più
intelligente approfittare e farmi una chiacchierata.
«Com’è che ti chiamano?» domanda divertito.
«Cerveza,» rispondo, sperando non voglia approfondire, ma mi
illudo.
«E che vuol dire?» indaga più divertito di prima.
«Cerveza sta per birra. In spagnolo birra si dice così,» lo informo.
«E perché ti chiamano così?»
«Per più di un motivo, ma preferisco non parlarne,» rispondo
strizzando l’occhio.
«E tu sei spagnolo?» chiede con uno sguardo indagatore.
«No, sono siciliano,» ammetto e lui sgrana gli occhi.
«Magnifico, effettivamente me lo dovevo immaginare,» dice
scrutandomi. «Occhi scurissimi, carnagione indefinita. Dovevo
immaginarlo. Nelle tue vene scorre sicuramente sangue africano.
L’accento, poi. Ho sempre pensato che l’inflessione sicula nel
parlare abbia una valenza davvero erotica. Tu, per giunta, hai anche
l’aria da duro. Un insieme davvero niente male.»
L’uomo parla compiaciuto.
Abbasso lo sguardo, come se volessi osservarmi attraverso i suoi
occhi, poi, non so neppure io perché, inizio a raccontare.
«Da ragazzino facevo parte di una piccola gang. C’ero io, un altro
palermitano, e due figli di immigrati dall’America Latina. Non mi
ricordo di dove fossero originari con esattezza, mi sembra fossero
venezuelani, e ci divertivamo a fare i bulli, poi ho messo la testa a
posto. Ho fatto lo sbandato per un periodo, ma i miei sono riusciti a
rimettermi in carreggiata a suon di schiaffoni. Ero all’inizio
dell’adolescenza e mi sentivo incazzato, senza sapere neppure io
verso chi o per quale ragione. Mi sentivo diverso. Ero incazzato un
po’ con tutti: famiglia, insegnanti, gli altri studenti. Entrai a far parte di
questa gang e, per un certo periodo, diventammo il terrore del
quartiere e dei quartieri limitrofi, ma, per fortuna, a parte qualche
cazzata, non ci siamo mai spinti troppo oltre anche perché, se non
fai attenzione, rischi di indispettire quelli veramente cattivi e lì poi
sono cazzi. Col tempo ho messo la testa a posto e mi sono persino
diplomato, pensa,» racconto tutto con un certo orgoglio, non
riuscendo quasi a crederci neppure io.
«Mi sembra un’ottima cosa! Una sbandata ci può stare,
soprattutto a quell’età, ma mi fa piacere tu sia riuscito a ritrovare la
via più giusta. Questo è importante. Ci sono ragazzi che rimangono
impantanati,» osserva e io annuisco, poi domanda. «Che ci fai a
Roma?»
«Il bisogno di lavorare mi ha portato qua,» dico brevemente, poi
gli faccio più o meno la stessa domanda. «E tu che ci fai qui a
quest’ora?»
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